La profezia in Carla Lonzi – Alessandra De Perini

Carla Lonzi

A nove anni Carla Lonzi, dopo un’estate passata con la sorella Lidia nella sede estiva del collegio di Badia a Ripoli (FI), chiede di continuare lì gli studi, così vi rimane fino a tredici anni. Lascia il collegio nel 1943, per volontà del padre che decide di trasferire tutta la famiglia in un paese vicino a Firenze per metterla al riparo dai bombardamenti, ma anche perché vedeva nel crescente distacco di Carla dalla famiglia il rischio di una separazione definitiva.

Il collegio, infatti, aveva abituato Carla a un’indipendenza che non si accordava con il ruolo di figlia. Quella del collegio fu per Carla un’esperienza fondamentale cui si riferirà costantemente nel corso della sua vita: “Non sarei quella che sono se non avessi avuto modo in collegio di sperimentare tante possibilità spirituali, tante emozioni fuori dal rapporto con la famiglia, proprio in me stessa”. In collegio Carla scrive diari, lettere, meditazioni e legge libri autobiografici di sante. Queste letture resteranno per lei dei punti di riferimento, come Storia di un’anima di Teresa Martin e Libro della sua vita di Teresa d’Avila: entrambi i testi sono scritti in prima persona ed esprimono fenomeni e stati interiori per lei naturali e che non ritrovava altrove. Le due Terese le piacevano perché erano impegnate in un’avventura invisibile come l’amore e concreta come la sofferenza: “mi precedono su questa strada e, sebbene sembra che rinuncino a tutto, mi è chiaro che non hanno rinunciato all’essenziale”.

Pur provenendo da una famiglia non religiosa e frequentando, in seguito, ambienti laici, Carla nelle sue analisi e riflessioni farà spesso riferimento a simbologie, figure e vicende tratte dai testi sacri.

Nel Diario Taci,anzi parla, che inizia a scrivere in agosto 1972 e termina nel dicembre 1976, si definisce “profeta”, non perché prevede e anticipa il futuro, ma perché coglie nel presente quello che altre e altri ancora non vedono: l’incontro tra due donne nell’autenticità dell’autocoscienza che cambia il corso della storia. Come Giovanni Battista incontra Gesù, suo contemporaneo, e lo riconosce, così Carla annuncia la donna a venire e riconosce in Sara l’altra della relazione che le consente di andare oltre “la coscienza infelice di sé” e per la prima volta di comunicare ed espandersi nella certezza di esistere: “Mi sono manifestata nel femminismo perché avevo intuito che il niente misconosciuto in cui mi ero rifugiata si rivelava improvvisamente come il nuovo campo della soggettività femminile”.

Il Battista fu una figura chiave per lei. Non a caso, chiamò suo figlio Battista, come il profeta Giovanni, “una voce che grida nel deserto, una canna battuta dal vento”.

Quando avviene l’incontro con Sara, Carla scrive: “Io l’accompagno per mano e dico: eccola, è in lei che mi sono riconosciuta”. Compiuta la testimonianza, si sente libera e può cominciare la sua vera vita. Come Giovanni ha reso testimonianza alla verità.

Così Carla Lonzi descrive nel Diario la sua presa di coscienza femminista: “Sono stata protagonista nel femminismo, ma senza dirmelo, appena me ne sono accorta la vergogna mi ha sbattuta a terra, come Paolo sulla via di Damasco”.

Il processo di conoscenza rende colpevoli, mentre lei avrebbe voluto essere riconosciuta innocente. Al tempo stesso, si rende conto che la donna innocente, in realtà, è la fedele esecutrice di un destino femminile senza vie d’uscita, accettato in partenza fino alla morte. Prendere coscienza la porta così a rivendicare il “diritto” alla conoscenza che conduce all’infelicità, ma solo da qui le donne potranno “imboccare la strada della felicità”.

Con la presa di coscienza, Carla si accorge che la vita ha qualcosa che fa paura e si sente colpevole di averlo scoperto. Allora si chiede per quale trasgressione, sfida o prepotenza ha voluto aprire gli occhi alla realtà e se è possibile svincolare il processo di conoscenza dal senso di colpa. Quale molla l’ha spinta a fare il femminismo? “Forse – scrive – volevo diventare simile a Dio?”. Il suo era un “peccaminoso progetto” di trascendersi?

Nel Diario Carla paragona la sua sofferenza a quella di Gesù: “Cristo soffre perché gli amici dormono, lasciandolo solo nell’imminenza del martirio”, lei piange per “lo sconforto di sempre, sconforto di secoli e millenni, sconforto della mia specie”. Prova pena per sé e per sua madre, per le donne che rinunciano a capire, per le indecise, quelle che non si sentono responsabili, le vittime che provano pietà nei confronti dell’oppressore, per tutte quelle che non prendono mai parola, abituate alla dipendenza.

Avrebbe voluto essere assolta da un “Cristo femmina” perché “un uomo non può liberare una donna”. Poi si chiede se essere più avanti delle altre sia una colpa o una solitudine. Pensava che, una volta spezzata la dipendenza dal mondo maschile, la donna sarebbe stata salva, invece, nel suo Diario ammette questa dolorosa verità: “abbiamo lasciato il purgatorio con l’uomo per l’inferno tra donne”, un inferno che aveva preso il posto del “paradiso originario con la madre”

“Se Dio mi vedesse” così pensa spesso Carla, ma poi commenta: “Dunque ho ancora in me l’investitura di mio padre. Le sorelle le sento destinate a salvarsi per mezzo mio? Ciò significa che ho voluto prendere il posto di mia madre, credendo di esserne degna. Il mio è anche un atto di espiazione nei suoi confronti”. Al tempo stesso, afferma spavalda: “Se Dio non c’è, nessuno potrà godere di quella meraviglia che io sono”.

Secondo Carla Lonzi il femminismo doveva “misurarsi nel momento più alto raggiunto dall’uomo: Arte, Religione, Filosofia”. Per questo si rifiuta di partecipare ai riti e alle celebrazioni della cultura maschile e dice che non è una scrittrice. Le è più consono l’atteggiamento religioso, al punto che pensa al femminismo come una religione femminile senza dei, senza valori assoluti e negli “esercizi” di autocoscienza vede la rappresentazione del volto di un’umanità che vuole rispecchiarsi nelle relazioni, non proiettarsi nelle immagini idolatre.

Carla Lonzi riconosce la presenza attiva nella sua vita di due spinte soprapposte: Giovanna D’Arco, e come lei si sente pronta ad andare sul rogo per “testimoniare le sue voci”, e Teresa Martin, con la sua piccola via di liberazione, che si fa ritrarre in una foto vestita da Giovanna d’Arco. Alla piccola Teresa dedica dei versi:

Adesso so dove sei, Teresa Martin,
e di quali rose, di quale profumo
ti circondi.(Diario p.175)

Teresa amica mia
Teresa Martin
compagna di liberazione
in collegio cercavo me stessa
leggendo di te chiamandoti
ma ti sentivo superiore
ti pensavo “santa”
prediletta da Dio
fiduciosa grata
sfiduciata grata
il tuo senso della vita
andava ben oltre
la mia ribellione
si tuffava senza timore
in un immenso oceano.
Pensavo di seguirti
esercitando la virtù
pensavo di raggiungerti
quando mi sarei sentita
degna di te.
Ora ti confondi in me
in lei anima mia
un tempo sconosciuta
quando ti ho invocato
piangendo come ora
per una piccolezza
che era la tua forza
sorella mia
ora dentro di me.
Mi sembravi eroica
per la tua morte
lì ero certa che non ti avrei seguita.
Adesso so
che se uno è se stesso
è felice. (Diario p.179)

Con il femminismo Carla Lonzi dice che “è finito il tempo delle profezie” perché finalmente si è avverata la profezia di Sputiamo su Hegel (1970): le donne sono il presente, sono un movimento in espansione. L’uomo è abituato a fare il “messia”, ad aspettare il “messia”. Carla, invece, si sente fortunata perché finalmente è uscita dal messianesimo.
In Gesù vede ora l’essere consapevole in un mondo che non lo è e non ha coscienza dell’autenticità. Nella cultura degli uomini chi si assume la responsabilità di dire la verità in una dimensione pubblica diventa insopportabile e il martirio è l’unica via per testimoniare ed estinguere il debito con l’umanità.

Come Cristo aveva confutato i dottori della legge ebraica prima di iniziare il suo vero momento di espressione, così i primi due anni di Rivolta Femminile – scrive Carla nel Diario – sono stati anni di confutazione per realizzare il distacco dal mondo maschile, il superamento della dipendenza, lo smaltimento dei miti e dei simboli dominanti.

Come Cristo si sentì abbandonato dal Padre, Carla prova indignazione, delusione, senso di ingiustizia e di scandalo per non essere stata accolta dalla cultura del padre. In seguito, facendo esperienza nel femminismo della tremenda divisione e incomprensione tra donne, si rende conto che, invece di rivolgersi al Padre, avrebbe dovuto dire: “Madre, sorella, perché mi avete abbandonato?”

Carla era consapevole di aprire una strada di cui in seguito altre si sarebbero avvantaggiate. Sentiva che toccava a lei cominciare, fare il primo passo. Scrive nel suo Diario: “Avevo quella maledetta idea che qualcosa deve cominciare e non sapevo cosa per riunire le sorelle che non si capiscono e fanno a chi è più brava davanti al padre”. Capisce che, se non si fosse mostrata sicura, nessuna sarebbe stata con lei, ma avrebbe fatto centro nell’uomo e niente sarebbe cominciato. Il suo impegno fu quello di “aprire una strada che non interessa a nessuno e suscita incomprensione, ostilità, ridicolo”, mentre per lei significava rinuciare a tutto per ottenere l’essenziale.

Prima del femminismo, Carla era in attesa di una donna che si ponesse di fronte a lei come soggetto. Non chiedeva alle proprie simili comprensione, affetto materno, complicità, ma “risonanza”, “autenticità”. Dopo l’incontro con Sara, la prima donna che la riconosce come soggetto, scrive: “Alzati e cammina: se non lo dice un’altra, tu non sospetti com’è semplice camminare”.

Nella sua vita le era mancata una donna che potesse capire cos’era stato per lei fare tutto da sola. Dalla conferma di Sara, Carla giunge alla certezza di avere una missione da compiere e a cui era predestinata.

All’inizio del femminismo, si sentiva sola come il profeta Giovanni Battista: “Io ero un profeta, cioè uno che crede in una possibilità e la fa esistere, finché alla fine qualcuno si identifica con quella possibilità profetizzata”. Dopo, però, scopre che il profeta è beffato, è una presenza che disturba.

Fu terribile per lei essere avanti sul proprio tempo. Davvero terribile – scrive – perché nessuno lo sa. “Se io do testimonianza a me stessa la mia testimonianza non vale”. Era difficile mantenere la fede da sola, essere una specie di voce assoluta nel gruppo.

“Cosa stavo rincorrendo con il femminismo?”, si chiede Carla nel Diario. Trovare le amiche del collegio, suor Caterina che si era occupata di lei nell’adolescenza. Il “monastero” per Carla era la dimensione del parlarsi tra donne con autenticità, dove poter godere di sé e di chi è come lei, “senza interruzioni e disturbi”. Le amiche di Rivolta a Milano furono per lei “la ricchezza, la sopresa, la meraviglia”. Incontrarle era “la felicità di tornare a casa”. Casa sua era tra le amiche. Con loro si sentiva “imprevista”.

Con le amiche di Rivolta, mette a disposizione se stessa in ogni momento, ma non può affrettare i tempi né riesce a spartire la responsabilità. Quando vede che le donne si distruggono, si tolgono forza, si accusano, sono nemiche le une alle altre, riconosce il meccanismo del “capro espiatorio”. Allora scrive: “Scopri Cristo in te, colui che si è preso il massimo di responsabilità” e coglie il divario che c’è tra sé e le altre, fra la sua coscienza “esaltata” e quella delle altre, perciò arriva a maledire la sua smania di liberazione e riconosce che “un profeta può essere sciocco, ridicolo, ignorante, ma non ambizioso”.

Con “cattiveria innocente” nel gruppo lei scopriva le difese dell’altra, vi infieriva, non dava tregua, finché l’altra si scopriva e usciva dal sogno. Esercitava la sua disparità di consapevolezza rispetto alle altre, come il giardiniere si prende cura delle rose. “La disparità è un dato di fatto: nessuna si sente autonoma da me o quello che dico le dà senso di colpa o la frustra, la inferiorizza o la suggestiona”. Carla era una che passa tutta la sua vita a capire: questa era per lei trascendenza.

Come Cristo è stato frainteso dagli apostoli, anche lei si sentiva spesso fraintesa, interpretata al peggio, mentre avrebbe voluto essere accolta nel cuore. Cristo è l’uomo cosciente in cui ognuno si riconosce quando prende coscienza.

Carla Lonzi si sentiva “il vero strumento” di quelle che le sono state vicine. L’autenticità l’ha portata a non creare “un formalismo paritario sulla disparità di fatto”. La sua intelligenza, però, viene sentita dalle altre come sinonimo di cattiveria. Così scrive che l’aspettativa tra donne è che l’una con l’altra si sia banalmente buone e materne: “Siamo gentili le une con le altre perché ci temiamo e ci esorcizziamo a vicenda”. “L’invidia contesta a chi possiede un certo bene il diritto ad averlo. Glielo fa sentire usurpato e oppressivo”. Alla luce di queste considerazioni, Carla prova il desiderio di “liberarsi dall’oppressa”, perché “la mancanza di autonomia nei rapporti è un peso che, quando si avverte, non è più sopportabile”.

A un certo punto si rende conto che il femminismo non può andare avanti, se non trova un’uscita nella realtà. Scrive: “Io che non esisto socialmente posso riconoscere un’altra che non esiste socialmente. Questa catena di riconoscimenti tra non esistenti è valida solo tra noi!”. C’è un momento, scrive, in cui “quello che pensi lo vuoi mettere sulla pedana dell’umanità”. Poi si domanda: “Noi donne chi siamo nei rapporti tra noi? Cosa abbiamo combinato dall’inizio dei tempi?”. Diventa urgente per lei “uscire dall’involucro preistorico” e prendere contatto con la realtà. La realtà per lei non è “madre che nutre” e va accolta attraverso la dolorosa “morte e resurrezione”.

11.5.2021
Alessandra De Perini