Un bellissimo studio di Annamaria e Mauro Ruggirello che raccoglie tutti gli elementi per rendere evidente come Atena, la dea dall’aspetto di civetta e Penelope la tessitrice traggono la loro origine dall’antichissima dea uccello.
(Pubblicato su la rivista L’ETERNO ULISSE n° 16 pp. 4-16)
Penelope e Atena
di Annamaria e Mauro Ruggirello
PENELOPE E ATENA
DUE ASPETTI DELL’ANTICA DEA-UCCELLO
TESSITRICE DEL DESTINO
LA FIGURA DI PENELOPE NELL’ODISSEA PUÒ ESSERE ASSOCIATA, ATTRAVERSO L’ANALISI ETIMOLOGICA
DEL NOME, MA ANCHE ATTRAVERSO IL SIMBOLISMO DELLA TESSITURA, ALLA PRINCIPALE DIVINITÀ
FEMMINILE GRECA: ATENA, LA DEA “DALL’ASPETTO DI CIVETTA”, O DEA UCCELLO, INVENTRICE
DELLA FILATURA E DELLA TESSITURA, A SUA VOLTA UN’INCARNAZIONE DELLA DEA “DAI MILLE
NOMI”, OGGETTO DEL CULTO DELLE ANTICHE CIVILTÀ DELL’AREA MEDITERRANEO-EGEA E
ANATOLICO-MESOPOTAMICA. LA FILATURA E LA TESSITURA SONO TEMI CHE RITROVIAMO
IN TUTTE LE MITOLOGIE ANTICHE E CHE SONO SEMPRE STATI ASSOCIATI ALLA
DEFINIZIONE E MODIFICAZIONE DEL DESTINO UMANO. TESSERE VUOL DIRE
TRAMARE, ESCOGITARE PIANI, “ARTI” CHE NELL’ODISSEA SONO RAPPRESENTATE
SIA DA PENELOPE CHE DA ATENA, LE QUALI DETERMINANO IN UN MODO O
NELL’ALTRO LA SORTE DI ULISSE: L’UNA TENENDOLO “MAGICAMENTE” IN
VITA ATTRAVERSO L’AZIONE DELLA TESSITURA, L’ALTRA ESCOGITANDO
PIANI, “INSERENDO” NELLA TRAMA DEGLI EVENTI LE PROVE CHE
ULISSE DOVRÀ SOSTENERE PER CONOSCERE LA “MORTE” E
POTER FARE FINALMENTE RITORNO SANO E SALVO A CASA.
di Annamaria e Mauro Ruggirello
L’Odissea, il maggiore dei poemi greci chiamati “nostoi”, dedicati al “ritorno” degli eroi achei dalla guerra di Troia, è in realtà piuttosto un contenitore in cui ha trovato posto una serie di racconti e temi di natura mitica provenienti dalla cultura dell’area mediterraneo- egea e anatolico-mesopotamica.
Cantati dapprima dagli aedi, questi motivi sono confluiti poi nell’Odissea, opera composita scritta nella sua forma definitiva solo nell’VIII secolo a.C. Il personaggio di Penelope come quello di Atena ricoprono nel poema un ruolo fondamentale, determinando lo svolgersi degli eventi, la sorte di Ulisse, l’una tenendolo “magicamente” in vita attraverso l’azione della tessitura
«allora di giorno tesseva la grande tela e la disfaceva di notte»; «così per tre anni con l’inganno sfuggì all’attenzione e persuase gli Achei»
l’altra escogitando piani, “inserendo” nella trama degli eventi le prove che egli dovrà sostenere per conoscere la “morte” e poter fare finalmente ritorno sano e salvo a Casa. Per quanto riguarda Penelope, così la studiosa americana Barbara G. Walker descrive il suo ruolo, la sua funzione centrale ricoperta nell’Odissea <fn>Barbara G. Walker, The Woman’s Encyclopedia of Myths and Secrets, HarperSanFrancisco, s.v. Penelope. Secondo la studiosa, Penelope «era un tempo una madre di fertilità orgiastica, come mostrato dalla leggenda secondo la quale ella accolse nel suo letto tutti i suoi “pretendenti” e fu sia madre che consorte di Pan»: secondo Pindaro (Fr.90), infatti, Pan sarebbe figlio di Apollo e Penelope oppure, secondo Erodoto (2.145, Apollodoro (7.38) e Igino (Fabulae 224), il dio sarebbe figlio di Ermete e Penelope; secondo Duride di Samo, infine, Penelope avrebbe giaciuto, durante l’assenza di Ulisse, con tutti e 108 i pretendenti (v. https://en.wikipedia.org/wiki/Penelope): «E lei non rifiuta l’odiosa unione (con i pretendenti), né è capace di portarla a compimento (fare una scelta ad esclusione degli altri)» (I, 249-50).
</fn>:
«La sua funzione nell’Odissea è quella di spiegare la vita affascinante di Ulisse. Finché Penelope si astiene dal tagliare il suo filo, Ulisse non può morire. Così egli sopravvive a molte avventure pericolose mentre lei tesse e disfa l’arazzo della sua vita, senza mai tagliarlo. Ulisse sopravvive alla maledizione mortale gettata su di lui da Ecuba».
Ecuba, nell’Iliade seconda moglie di Priamo ma, in realtà, un aspetto di Ecate <fn>Ecate (gr. Ἑκάτη), dea della magia e del parto, psicopompa, spesso raffigurata con tre teste (di giovane, di adulta e di vecchia), altre volte con testa di cane, di serpente e di cavallo, probabilmente derivata dalla dea egizia della magia, del parto e della rinascita Hekat o Heket (hkt); cfr. anche l’egiziano hk3 “magia” e hk3w, un epiteto di Iside, “donna di potere, madre delle parole di potere”.</fn>, incarnazione del “fato distruttivo”, maledice Ulisse e lo condanna all’esilio <fn>In: Euripide, Le Troiane ed Ecuba.</fn>. L’eroe viene protetto dal destino di morte solo attraverso l’azione di Penelope.
L’origine del nome Penelope (gr. Πηνελόπεια o Πηνελόπη) è, secondo Robert Beekes – eminente linguista – pre-greca e collegata a pēnelops (πηνέλοψ) o pēnelōps (πηνέλωψ), che secondo Esichio di Alessandria è «un tipo di uccello»<fn>«<πηνέλοψ>· ὄρνις ποιός» (Γλώσσαι/Π); Esichio di Alessandria (V sec.), autore del Lessico, un glossario importantissimo per la ricostruzione dei significati di molti termini del greco antico.</fn>, probabilmente un’anatra od oca selvatica dal collo variopinto (alzavola); secondo altri, come vedremo, è invece un’incarnazione dell’antica dea dall’aspetto di uccello, rappresentata in numerose statuette femminili risalenti al periodo neolitico ritrovate in un’area geografica che va dalla Tessaglia ai Balcani al Mar Nero. La finale -ōps (-ωψ) richiama del resto anche l’idea di “volto, aspetto, maschera”.
La dea-uccello e le maschere ornitomorfe di donna-uccello
Scrive Marija Gimbutas, eminente archeologa e studiosa di origine lituana, autrice di importanti studi come Il Linguaggio della Dea:
«L’immagine di una donna con maschera di uccello e grossi seni penduli emerge nel Paleolitico Superiore.
Esempi famosi sono le Veneri con becco della cultura Magdaleniana»<fn>Marija Gimbutas, Il linguaggio della Dea, Venexia, 1990, p. 31.</fn>,
ritrovate in più di cinquanta siti diversi, a testimoniarne la diffusa presenza non solo nello spazio ma anche nel tempo. Statuette con la testa a forma di becco sono decorate con disegni di riquadri e di meandri. L’autrice prosegue:
«Il significato simbolico acqueo del meandro è palese quando ricorre su statuette che rappresentano anatre o altri uccelli, su una figura della Dea con indosso una maschera di uccello e sui suoi templi»<fn>Marija Gimbutas, op. cit., p. 25.</fn>. Doveva trattarsi di un uccello acquatico perché «evidentemente il regno della Dea è la mitica sfera acquatica»<fn>Ibidem</fn>.
L’umidità assicura la vita, e gli uccelli garantiscono che permanga l’unione fra il cielo e la terra. Fin dal Paleolitico Superiore il meandro associato alla dea-uccello continua ad essere presente in tutti i ritrovamenti provenienti dai siti archeologici della “Vecchia Europa”, durante tutto il Neolitico e l’Età del Ferro.
«Questa Dea non ha niente a che fare con il pantheon degli dèi indoeuropei. Nel corso della preistoria e della storia essa appare come uccello-donna, uccello o donna. Come uccello acquatico era colei che nutriva l’umanità»<fn>Marija Gimbutas, op. cit., p. 111.</fn>
Abbiamo già detto che il nome Penelope si riferisce probabilmente a un’anatra od oca selvatica. Ma il greco Pēnelōps può essere interpretato anche come un termine composto il cui secondo elemento, elōps (-έλωψ), è un suffisso comune pre-greco per indicare gli animali predatori, il che fa pensare anche a un uccello predatore come la civetta<fn>La civetta, attiva di notte, periodo di oscurità, rappresenta a sua volta l’aspetto “oscuro”, mortale della dea rigenerativa. L’“uccello della morte” si traduceva così talvolta in una dea che poteva portare la morte sul campo di battaglia.</fn>, il principale simbolo della dea Atena<fn>Il nome è attestato per la prima volta nel greco miceneo, a Cnosso, in un’iscrizione in lineare B del periodo tardo-minoico II. Compare sulle tavolette come A-ta-na po-ti-ni-ja, o meglio Athana potniya, e può essere tradotto come la Signora Atena, laddove potniya era un appellativo usato solo per le dee. A Creta troviamo anche l’iscrizione A-ta-no-dju-wa-ja (KO Za I iscrizione, riga 1), in lineare A minoico, laddove la parte finale è considerata equivalente al lineare B miceneo di-u-ja o di-wi-ja (“divina”), ossia la Divina Atena. A parte queste attribuzioni greco-cretesi, Günther Neumann ha suggerito che il nome di Atena potrebbe essere di origine lidia, un composto derivato in parte dal tirreno ati, col significato di “madre” e in parte dal nome della dea urrita Hannahannah, abbreviato spesso in Ana (Günther Neumann, Der lydische Name der Athena. Neulesung der lydischen Inschrift Nr. 40, in: Kadmos 6, 1967.)</fn>.
In epoca arcaica Atena deve essere stata identificata con l’antica dea-uccello del Neolitico, come la mesopotamica Lilith<fn>a sumera Lil, un demone della tempesta, sarebbe divenuta poi l’accadica Lilītu, “demone femminile”, e l’ebraica Lilith, raffigurata anche con ali e piedi di uccello. Il suo nome ebraico significa “spettro
notturno”. È l’aspetto “oscuro”, mortale, della dea rigenerativa.</fn> o la dea raffigurata con ali e artigli da civetta sul famoso rilievo Burney conservato al British Museum di Londra, una terracotta mesopotamica degli inizi del secondo millennio a.C. In epoca preistorica la dea era raffigurata come un uccello, mentre nell’iconografia successiva troviamo una figura femminile accompagnata da un uccello. L’uccello delle epoche storiche rappresenta dunque un’incarnazione della Grande Dea. Atena, del resto, compare spesso nell’Iliade e Odissea<fn>Ad es. Odissea I, 319; III, 371-372.</fn> con attributi di uccello, e sulle antiche monete greche era rappresentata proprio nel suo aspetto di civetta. L’epiteto più frequente di Atena, da Omero (VIII o VII secolo a.C.) in poi, è glaukōpis (γλαυκῶπις), solitamente tradotto “dagli occhi lucenti, azzurri”. Il termine è una combinazione di glaukós (γλαυκός) “lucente, grigio-azzurro”, più tardi “verde-azzurro o grigio”, e ōps (ὤψ) “volto, aspetto”, ma glaux (γλαύξ) in greco, dalla stessa radice, è anche il nome della civetta, probabilmente a causa degli occhi luminosi dell’uccello notturno, e la sua vista notturna ne fa un simbolo di sapienza. La civetta è rappresentata spesso poggiata sulla spalla della dea, mentre nelle prime raffigurazioni è appollaiata sulla sua testa. L’iconografia classica di Atena prevede inoltre che la dea sia ritratta in piedi mentre indossa l’armatura e l’elmo, tenuto alto sulla fronte;
la dea
«era responsabile non solo della continuazione della vita come nascita, morte e rinascita; almeno nei testi della prima epoca storica era anche responsabile della sapienza, profezia, guerra, amore, giudizio e giustizia»<fn>Miriam Robbins Dexter, The Monstrous Goddess: The Degeneration
of Ancient Bird and Snake Goddesses into Historic Age Witches and
Monsters, in: The Journal of Archaeomythology, special issue 2011,
vol. 7.</fn>.
È Atena la dea che protegge e aiuta Ulisse contro ogni difficoltà, così che egli possa fare finalmente ritorno a casa:
«perché non ho mai visto una divinità amare manifestamente così come Pallade Atena gli stava manifestamente vicino»<fn>Odissea, III, 221-2; le traduzioni dall’Odissea sono di Mauro
Ruggirello.</fn>.
La dea-uccello e la tessitura
Tornando all’origine del nome Penelope, da pēnelops (πηνέλοψ), osserviamo come la prima parte del nome coincida foneticamente con il greco pēnē (πήνη), “filo avvolto sulla spola, trama, spola”, pēnion (πηνίον) “trama, spola con filo”, termini che possiamo confrontare con il verbo penomai (πένομαι) “lavorare, filare, tessere” (da una radice indoeuropea che ritroviamo ad es. nel latino pannus “panno, stoffa”)<fn>Cfr. anche gotico fana, tedesco Fahne “pezzo di stoffa, panno, straccio” (Hj. Frisk, Griechisches Etymologisches Wörterbuch, vol. II, p. 529; v. anche P. Chantraine, Dictionnaire étymologique de la langue grecque, p. 865).</fn>, e con il verbo denominativo greco pēnizomai (πηνίζομαι) “svolgere il filo della trama”, pēnisma (πήνισμα) “trama sulla spola”, ecc. Il greco Pēnitis (Πηνίτις) la “tessitrice” è d’altronde un altro epiteto di Atena, così come Ergane (Εργάνη), “industriosa”, riferito ai lavori tipicamente femminili del filare/tessere. Se consideriamo qui anche la seconda parte del nome, -ōps (-ωψ), “volto, aspetto, sembianze”, possiamo dedurre che Penelope unisce in sé l’arte del tessere con la capacità di assumere sembianze diverse, come se il tessere fosse una sorta di maschera indossata per nascondere la propria vera identità. È Atena a fare dono alla “saggia” (περίφρων<fn>È l’intelligenza del cuore (φρήν).</fn>) Penelope delle “arti” del tessere (ἔργα):
«pensando in cuor suo ai doni che Atena diede a lei soprattutto, fare lavori bellissimi»<fn>Odissea, II, 116.</fn>.
Tessere vuole anche dire tramare, escogitare piani, quelli di Penelope:
«pensieri sapienti e astuzie, quali non abbiamo mai sentito avesse posseduto alcuna delle antiche donne achee dalle belle trecce»<fn>Odissea, II, 117-9.</fn> «per prima cosa un manto m’ispirò in cuore una dea: collocato nelle mie stanze un gran telaio, di tessere una tela delicata, enorme»<fn>Odissea, XIX, 138-140.</fn>; «allora di giorno tesseva la grande tela e la disfaceva di notte, dopo aver sistemato accanto le torce»<fn>Odissea, II, 104.</fn>; «così per tre anni con l’inganno sfuggì all’attenzione e persuase gli Achei»<fn>Odissea, II, 106.</fn>
Che cosa lega la dea-uccello alla tessitura? Il nido serve ad accogliere l’uovo, promessa di una nuova vita. Ed è la vita stessa che “impone” la creazione di un nido che la sostenga. Unire fili ed elementi, intrecciandoli, crea la struttura che diviene la culla specifica di ogni specie vivente, con caratteristiche sue proprie.
Caratteristiche che determineranno le condizioni nelle quali gli individui stessi si svilupperanno seguendo la “trama” del loro destino. Nella trama della vita, che si svolge lungo la linea orizzontale del telaio, la perfezione è data dall’equilibrio che si crea procedendo tra i due estremi “vizio” e “virtù”. Se la vita umana è rappresentata da un filo, disporla nella trama significa modificarne il percorso: l’azione del tessere è azione creatrice.
Il mito greco ci narra che fu Atena ad inventare la filatura e la tessitura e, grazie al ritrovamento di fusaioli e di pesi da telaio con incisioni rituali risalenti al Neolitico e all’Età del Rame, possiamo collegarla all’antica dea-uccello: troviamo infatti su placche di terracotta greche una civetta con braccia umane che fila la lana.
Ancora, uno dei più antichi simboli geometrici spesso ritrovati sulle ceramiche a forma di uccello è lo “chevron”, due V sovrapposte tra loro, reminiscenti dei seni penduli della Dea.
«Lo chevron continua per lungo tempo a essere inciso sulle figure di filatrici o sui loro scranni fin dall’antica Grecia»<fn>Marija Gimbutas, op. cit., p. 67.</fn>.
Fusaioli che datano fra il 5500 e il 4200 a.C. recano anch’essi incisi gli stessi segni distintivi dedicati a colei che protegge l’arte della tessitura. La filatura e la tessitura sono temi che ritroviamo in tutte le mitologie antiche e che hanno sempre accompagnato la diffusione di queste arti tipicamente femminili. Una delle più antiche divinità conosciute associate alla tessitura è l’egizia Neit. Platone scrive che i cittadini di Sais in Egitto adoravano una dea di nome Neit:
«Secondo i suoi abitanti, fondatrice della città è stata una dea, che nella lingua egiziana ha nome Neit e nella lingua greca ha nome Atena» (Timeo, 21E).
Nell’Egitto pre-dinastico Neit (nt)<fn>Secondo Ernest Alfred Wallis Budge (Gli dèi degli Egizi) la radice
del termine egizio per la tessitura è la stessa di quello usato per
esprimere l’idea di “essere, divenire”: nnt. Anche i nomi di due delle
Norne, Urðr “l’origine” e Verðandi “il divenire” sono riconducibili al
verbo ant. nordico verða “essere, divenire”.</fn> era già la dea della tessitura, oltre che dea della guerra e cacciatrice. Il suo emblema era la spola del telaio, con i suoi due uncini riconoscibili ad ogni estremità, al di sopra della testa.
Del resto
«la torcitura, la filatura, la tessitura e il cucito sono comuni alla greca Atena, alla romana Minerva e alle dee ancora viventi nel folklore europeo: la basca Andrea Mari, l’irlandese santa Brigit, la baltica Laima, la slava orientale Mokosh/Paraskeva-Pyatnitsa (“Venerdì”) e la rumena Sfânta Vineri (“Santa Venerdì”)»<fn>Marija Gimbutas, op. cit., p. 68. Dracma con profilo di Atena, V sec. a.C.
In basso: Statuette raffiguranti la dea-uccello 1300-1150 a.C. Museo
Archeologico Nazionale, Atene</fn>.
Nel giorno dedicato alla Dea (venerdì) non si eseguivano lavori di tessitura, né di torcitura e di altro lavoro “femminile”, pena la cecità o la trasformazione in rane! Il divieto di filare o usare il fuso o l’arcolaio, soprattutto durante un nuovo inizio (ad es. dell’anno, durante i dodici giorni dopo il solstizio d’inverno, per non impedire il ritorno del sole), in presenza di un bambino in culla, pena la crescita o lo sviluppo disturbati (cfr. la fiaba La bella addormentata nel bosco), era diffuso nel folklore di molti paesi europei: filare è come “legare con dei nodi”, avvolgere il filo è come “incatenare”.
In Inghilterra era vietato filare il giorno dell’Epifania, chiamato anche il giorno della Santa Rocca (Saint-Distaff Day). In Germania, Berchta o Bertha sporcava la rocca della ragazza che, all’ultimo giorno dell’anno, non aveva filato tutto il suo lino<fn>Cfr. Pierre Saintyves, Les contes de Perrault, p.88 sgg.</fn>.
Continua la Gimbutas:
«L’Artemide Eileithyia greca, la Bendis tracia, la Rehtia veneta e la Diana romana, al pari del Fato ancora presente nelle credenze popolari europee – particolarmente la Laima baltica e la Brigit irlandese – sono indiscutibili discendenti della preistorica Dea Dispensatrice di Vita»<fn>Marija Gimbutas, op. cit., p. 111.</fn>.
Nella mitologia greca le Moire sono le vecchie che controllavano, filando il filo della vita, il destino di ogni essere mortale dalla nascita alla morte. Figlie di Zeus e Themis, la “Legge”, le Moire erano tre, Clotho, la filatrice, Lachesis, la misuratrice del filo, e Atropo, l’inevitabile, l’inesorabile: «(Ulisse) subirà quel che è suo destino e che le austere Filatrici filarono col lino per lui dalla nascita, quando sua madre lo generò»<fn>Odissea, VII, 197-8.</fn>. Ritroviamo la triplice figura delle Moire in molte mitologie antiche, come le romane Parche (le Tria Fata) e le nordiche Norne: tutte personificazioni (ipostasi) della Grande Dea<fn>Le Moire saranno col tempo “spodestate” da Zeus nel loro
ruolo di signore del destino di uomini e dei, allo stesso modo
delle Norne, il cui posto sarà usurpato dal re degli dei Odino,
che reggerà le sorti di mortali e immortali seduto in trono
presso la sacra fonte Urðr, ai piedi del frassino Yggdrasil,
l’albero del mondo.</fn>. «Anche quando a certi tipi di distruttività ci si è sempre riferiti come ad “atti di Dio”, i pensatori occidentali paradossalmente hanno sempre rifiutato l’antica visione che la divinità possa mutare imprevedibilmente passando dalla benevolenza alla malevolenza e viceversa. Al contrario, gli adoratori di Kali assumevano la propria visione del mondo dalla natura, piuttosto che dai propri desideri e preferenze, cercando di considerare gli eventi in un contesto più ampio. In questo non erano diversi dai saggi gnostici, stoici, orfici e pitagorici dell’antichità, i quali consigliavano una completa sottomissione a Madre Fato – che si chiamasse Moira, Fortuna, Nemesi, Heimarmene, Dike, Persefone o con qualsiasi altro nome»<fn>Barbara G. Walker, The Crone, HarperSanFrancisco, p. 73.</fn>.
Il Fato non portava con sé nessuna idea di determinismo, era il disegno o tessuto individuale della vita.
L’idea di un disegno unico e originale per la vita di ognuno di noi è molto antica e potente, e la tradizione nordica parla di lenzuola funebri particolari, con un disegno diverso per ognuno ma che richiama ad uno schema di fondo per gli appartenenti ad una stirpe, fam
iglia o clan, uniti da legami di sangue.
Quello che poi è divenuto il plaid (la coperta) della tradizione nordica.
Nel folklore europeo più tardo, la tessitura ha mantenuto la propria connessione con la magia: Madre Oca, tradizionale narratrice di fiabe, è spesso associata alla filatura, e tessere, telaio e filare al destino<fn>Il verbo greco uphainō (ὑφαίνω) “tessere, ordire, tramare” è riconducibile a una radice indoeuropea *webh- col significato “intrecciare, tessere, tramare”.</fn>. La Bella addormentata si punge il dito su un fuso e la maledizione si abbatte su di lei.
Sacri telai del Neolitico
Se tessere rappresenta un’azione “magica” mediante la quale influenzare il proprio o l’altrui destino, il telaio è lo strumento principe con il quale tale azione si esplica. La funzione dei telai nell’antichità era infatti sacra e rituale. Custoditi nei santuari del periodo neolitico, essi erano oggetto di venerazione, e usati a scopo oracolare. Che il
telaio fosse uno strumento oracolare ce lo mostra la studiosa tedesca Margarete Riemschneider attraverso i ritrovamenti dell’area archeologica della Val Camonica:
«Essa era la sede di uno dei massimi santuari oracolari d’Europa […] come sempre sarà stata una schiatta particolare a gestire la divinazione, i Camuni, che si trasmettevano le conoscenze correlative di generazione in generazione»<fn>Margarete Riemschneider, Il telaio come strumento oracolare, in: Conoscenza religiosa n.3 (1983), pp. 354-358.</fn>.
Ma chi furono i Camuni? Di origine retica, leponzia o forse ligure, gli antichi Camuni (in latino Camunni) iniziarono a “scrivere” sulla roccia la loro storia «che si stenderà per 11.000 anni di evoluzione storica e culturale, dal tardo paleolitico alla dominazione romana…»<fn>Adriano Gaspani, La civiltà dei Camuni, ed. Keltia, p. 19.</fn> ed oltre fino al medioevo, inserendosi in una tradizione culturale locale che ci ha lasciato, con centinaia di migliaia di incisioni su roccia, una delle maggiori produzioni di arte rupestre in Europa, studiata e classificata fin dagli anni ’50 dal Prof. Emmanuel Anati<fn>Eminente archeologo, fondatore nel 1964 del Centro Camuno di Studi Preistorici a Capo di Ponte nella Val Camonica. Tra le sue numerose opere sull’arte e la cultura preistorica ricordiamo qui: I Camuni, all’origine della civiltà europea, Jaca Book,
1979; Il linguaggio delle pietre. Val Camonica: una storia per l’Europa, edizioni del Centro, Capo di Ponte, 1994.</fn>.
Tra il 5.500 e il 3.200 a.C. iniziano a comparire figure di “oranti”, di cervi e di telai nei cosiddetti “santuari d’altura”. Secondo Adriano Gaspani, archeoastronomo italiano,
«Uno dei simboli più ricorrenti nelle incisioni rupestri che sembrerebbe abbiano a che fare con le scene di culto sono gli uccelli»<fn>Adriano Gaspani, op. cit., p. 34.</fn>.
Raffigurazioni di uccelli compaiono accanto alle figure oranti e come simboli sul tetto di un possibile tempio. È interessante notare qui come telai di pietra compaiano anche nel libro XIII dell’Odissea, quando la nave dei Feaci si avvicina a Itaca:
«vi sono telai altissimi di pietra, e lì le ninfe tessono manti di porpora, meraviglia a vedersi»<fn>Odissea, XIII, 107-8.</fn>
Prosegue Gaspani:
«…un altro strano personaggio mitologico con la testa munita di corna ramificate […] appare talvolta rappresentato sulle rocce camune, come ad esempio a Naquane »<fn>Adriano Gaspani, op. cit., p. 37.</fn>. Scrive la Riemschneider: «Ovunque nel mondo il dio del gioco è allo stesso tempo diocervo.
[…] La presenza del cervo […] indica sempre il tavolo d’un gioco oracolare»<fn>Margarete Riemschneider, Il telaio, cit.</fn>. Inoltre troviamo scacchiere per il gioco del filetto o tracciati per le biglie.
Ai Sacri Telai del Neolitico si poteva accedere compiendo un pellegrinaggio, quando era necessario chiedere di “modificare” qualcosa sull’ordito del proprio tessuto destino personale. Si compivano pellegrinaggi per avere notizie su una certa faccenda che riguardava la vita come la morte.
La vittoria o la sconfitta al “gioco” procedeva parallelamente nella vita di chi interrogava il fato. Da qui la necessità di intervenire sulla trama degli avvenimenti, come parallelamente sulla trama del tessuto-destino, introducendo eventualmente elementi che avessero il potere di modificarne l’ordito, assicurando l’esito desiderato all’intera vicenda su cui ci si interrogava.
«Mediante le variazioni dei fili colorati, il destino individuale si esprime ancor meglio che su una scacchiera»<fn>Margarete Riemschneider, Il telaio, op. cit.</fn>.
Così doveva essere… il telaio poteva tessere la morte del nemico, come, nell’islandese Saga di Njál, il canto delle Valchirie ci racconta:
Si stende ampia / per la morte in battaglia / la nube
del telaio; / rugiada di ferite stilla./ Sulle lance / s’è
alzato grigio /il tessuto del popolo / a opera delle
amiche / con il rosso colore / di Odino / è tramato /
delle viscere dei combattenti / e teso rigidamente /
con teschi di guerrieri; / le stanghe trasversali / sono
lance, / l’intelaiatura è acciaio, / la spoletta è una
freccia; / colpisce con spade / il tessuto della mischia
/ tessete, tessete / il tessuto della lancia / […] / adesso
l’orrore / è manifesto; / sanguinosa nube / vaga nel
cielo; / rossa è l’aria / per il sangue dei prodi / caduti
nella sventura / per nostra sorte<fn>Saga di Njál, cap. 157; “sorte” significa qui “destino da noi provocato”; «Non abbiamo notizie di telai per tessere la buona fortuna», cit. da: M. Riemschneider, Il telaio, op. cit.</fn>
Nell’epica nordica le antiche Norne tessitrici-incantatrici determinano la fortuna, ma anche il fallimento.
«Una volta le tre figure del destino, le norne o parche, o le potenti ittite, non filavano: intrecciavano reti, come si può ancora chiaramente dedurre dalla prima canzone di Helgi»,
un poema in antico norreno facente parte della raccolta denominata
Edda poetica<fn>Helgakviða Hundingsbana, 2-5; cit. da: M. Riemschneider,
Riti e giochi nel mondo antico, ed. Convivio, 1991, p. 91.</fn>:
Notte era nella corte, vennero le norne / e crearono
il destino al figlio del re: / pienezza di fama al principe
diedero / che fosse il più bel nome della cerchia
degli eroi. / Forte intrecciarono il fatale tessuto, /
mentre tempesta precipitava in Bralund, le rocche /
rapide districavano gli aurei fili / annodandoli al
centro della sala lunare. / Celarono i capi all’oriente
e all’occidente, / nel mezzo stava la terra del re. / La
figlia di Neri lanciò il laccio a settentrione, /a questo
assegnò eterna durata.
La dea-uccello e l’epica irlandese del Sídhe<fn>Nelle antiche leggende irlandesi (Lebor Gabála Érenn) Sídhe è il nome dell’Altro Mondo, la dimora del “popolo della Dea” (Tuatha Dé Danann); il gaelico sídhe significa propriamente “monticelli, colline” e i suoi abitanti (in inglese: fairies) sono chiamati per questo aos sí (antico gaelico aes sídhe) “popolo delle colline”.</fn>
Anche nelle leggende e narrazioni celtiche troviamo un richiamo alla dea-uccello nelle sue diverse personificazioni, capaci di “portare l’eroe” nell’Altro Mondo, come nell’epica irlandese. La dea-uccello diventa allora la messaggera del Sídhe. Scrivono Le Roux e Guyonvarc’h: «Le donne dell’Altro Mondo sono le messaggere degli dèi. Ma non sempre si manifestano di primo acchito sotto forma umana: molto spesso arrivano sotto forma di uccelli (cigni)»<fn>Françoise Le Roux, Christian-Joseph Guyonvarc’h, I Druidi,
ed. ECIG, p. 365.</fn>. E sono cigni che cantano una musica soave, quelli che vengono dal nord, dall’Altro Mondo: «“Quale altra meraviglia c’è, donna?”, disse Fingen; “Non è difficile”, disse la donna.
“Sono venuti tre volte nove uccelli candidi con catene d’oro rosso e hanno fatto risuonare una musica meravigliosa sulle mura di Tara, tanto che per tutto quel tempo non ci sarà né tristezza né dolore, né angoscia né paura, né tedio a Tara”»<fn>Françoise Le Roux, Christian-Joseph Guyonvarc’h, op. cit.,
p. 425, nota 48.</fn>.
Un’altra storia narra che «[Cían e i suoi compagni] lasciarono quel luogo e, in seguito, trovarono uno splendido bosco, superbamente fragrante di profumi e di odori, dove c’erano grandi bacche scarlatte.
Ognuna di esse era grande come la testa di un uomo.
Begli uccelli splendenti si cibavano di tali bacche.
Strana era la natura dello stormo degli uccelli.
Erano uccelli bianchi dal capo porporino e dal becco dorato. Cantavano una musica armoniosa mentre mangiavano le bacche e questa musica era melodiosa e splendida. Avrebbero potuto addormentare persone malate o gravemente ferite»<fn>Françoise Le Roux, Christian-Joseph Guyonvarc’h, op. cit., p. 424, nota 47.</fn>.
E, per concludere, riprendiamo il passo gallese relativo agli uccelli di Rhiannon<fn>Una reminiscenza dell’antica dea celtica dei cavalli Epona.</fn>:
«Si diressero verso Harddlech, vi s’installarono, si rifornirono a
sufficienza di cibo e di bevanda e presero a mangiare e a bere. Tre uccelli vennero a cantar loro un canto a confronto del quale tutti gli altri non valevano nulla. Gli uccelli erano per loro una visione remota sopra la testa delle nuvole che stavano fuori, eppure erano nitidi come fossero stati accanto a loro. Quel pranzo durò sette anni»<fn>Françoise Le Roux, Christian-Joseph Guyonvarc’h, op. cit., p. 367.</fn>.
Il canto degli uccelli annulla qualsiasi senso del tempo ordinario, incanta, addormenta, trasporta nell’Altro Mondo, dove si può restare felici per molto tempo, ma può anche annunciare un destino avverso subìto dall’uomo per effetto della stessa magia. «La magia sussiste con tutte le sue conseguenze»<fn>Françoise Le Roux, Christian-Joseph Guyonvarc’h, op. cit., p. 368.</fn>.
Ma «è un errore ritenere che gli eventi distanti nel tempo siano perciò separati. Tutte le cose sono collegate come nella più sottile tela di ragno. Il movimento più lieve di ogni filo può essere percepito da tutti i punti della tela. Il volo di quegli uccelli ha fatto vibrare i fili che sono indivisibilmente collegati con le vicende degli uomini»<fn>Brian Bates, La via del Wyrd, ed. Mandala, p. 83.</fn>. Anche nella fiaba dei fratelli Grimm intitolata I sei cigni selvatici<fn>Fiaba n. 49, Die sechs Schwäne, numero 451 dell’indice di
Aarne-Thompson. Cfr. Jacob e Wilhelm Grimm, Fiabe, a cura di Laura Mancinelli, Oscar Mondadori, 1990, vol. 1, p. 204.</fn> è evidente l’importanza della magia del tessere unita alla presenza di uccelli incantati. In essa compare come tema il gomitolo magico, il tessere e la trasformazione in cigni. Infine, come le valchirie nei racconti epici nordici, anche la dea Mórrígan appare in quelli irlandesi con l’aspetto di corvo (Badb), decidendo le sorti delle battaglie, come le Chere greche<fn>«Figlie della Notte e sorelle delle Moire. Personificazioni del destino dei guerrieri o della morte violenta che colpiva durante duelli o azioni furtive» (da Wikipedia). Le Chere della morte (κήρες θανάτοιο) volano sopra il campo di battaglia con sguardo feroce, denti aguzzi e artigli pronti ad afferrare guerrieri feriti e moribondi per portarli nell’Ade (cfr. ad es.:Iliade, XVIII, 535-540).</fn>. Il corvo, secondo la tradizione dei Nativi Americani e di molte altre culture, è l’animale di potere associato alla magia. La sua “medicina” può far paura solo se non si ha il coraggio di entrare nell’oscurità del Vuoto:
«Il colore del Corvo è il colore del Vuoto, il buco nero dello spazio che contiene tutta l’energia della fonte creativa»<fn>Jamie Sams, David Carson, Le Carte-Medicina, ed. Amrita,p. 91.</fn>.
Quando gli dèi camminavano tra i mortali
La Dea è dunque, nel suo aspetto di uccello tessitore, l’artefice del destino umano. All’interno della narrazione dell’Odissea, l’intervento di Atena guida e modifica lo svolgersi stesso della vicenda.
La prima apparizione della dea in veste mortale introduce la ricerca di Ulisse da parte del figlio Telemaco, dando l’avvio all’intera epica. La divinità si mostra senza intermediari, attraverso un incontro.
Nei suoi diversi interventi, Atena appare sotto la maschera o le sembianze (ōps, ωψ), di volta in volta, di ospite straniero, amico di famiglia (Mentore), fanciulla, giovane pastore di pecore, donna, oppure in sogno, a Nausicaa sotto le spoglie di un’amica, e a Penelope sotto quelle della sorella di lei. «Anche gli dèi, simili a stranieri venuti d’altrove, assumendo tutti gli aspetti, girano per le città, per sorvegliare la tracotanza degli umani di voler essere uguali agli dèi o la loro osservanza della Legge»<fn>Odissea, XVII, 485.</fn>.
L’incontro di Telemaco con la dea avviene quando nel cuore del ragazzo il desiderio di cambiare la propria situazione di vita oltrepassa il limite della sopportazione. Appare Atena e lo sprona a intraprendere il viaggio (ὁδὸν) di ricerca del padre: «allora così dicendo se n’andò Atena occhi luminosi di civetta, come un uccello volò via in alto sparendo: ma a lui in cuore infuse forza e audacia, gli fece sorgere ricordo del padre più forte di prima; nella sua mente capì, stupefatto: si rese conto infatti che era una dea»<fn>Odissea, I, 319-23.</fn>. Atena ispira, consiglia o confonde gli animi: «ora ascolta e fa’ attenzione alle mie parole veritiere …»<fn>Odissea, I, 271.</fn>, e poi: «sui pretendenti dolce sonno versava, e li confondeva mentre bevevano, faceva loro cadere di mano le coppe»<fn>Odissea, II, 395-6.</fn>.
«Sono giunta ora qui per tessere con te un piano»<fn>Odissea, XIII, 303.</fn>: così Atena si appresta a occuparsi del piano di vendetta di Ulisse, su richiesta di quest’ultimo:
«Suvvia, tessilo tu il piano, come io possa vendicarmi su loro»<fn>Odissea, XIII, 386.</fn>. E Atena: «Ti sarò vicinissima, non ti perderò di vista»<fn>Odissea, XIII, 392.</fn>. «Nel mondo in cui Ulisse vive nulla accade di grande senza l’intervento di una potenza divina »<fn>Cit. da: Giuseppe Valdalà, Nessuno ascolterà Ulisse?, Moretti & Vitali, p. 19.</fn>.
Penelope e Atena “tessono” il destino di Ulisse: l’una tenendolo “magicamente” in vita attraverso l’azione della tessitura, l’altra escogitando piani, “inserendo” nella trama degli eventi le prove che Ulisse dovrà sostenere per conoscere la “morte” e poter fare finalmente ritorno sano e salvo a Casa<fn>Come Arianna, sposa del dio Dioniso nella Creta minoica, che possedeva il filo che condusse Teseo al centro del Labirinto,
riportandolo poi indietro verso l’uscita e la salvezza.</fn>. Se il mare rappresenta simbolicamente le acque che separano il mondo dei vivi da quello dei morti, Ogigia, Eèa, la Terra dei Ciclopi e Scherìa, le isole o mondi visitati da Ulisse nelle sue peregrinazioni sono, come le Isole dei Beati, luoghi favolosi appartenenti a un’altra dimensione, e abitati da creature altrettanto favolose (ninfe, incantatrici, orchi o navigatori dell’anima). Un altro mondo, l’Altro Mondo, dalla cui “schiavitù” Ulisse riuscirà tuttavia a liberarsi per fare ritorno.
Questa è la grande epica dell’Odissea, che non a caso raccoglie storie-narrazioni di un’epoca, di un Tempo in cui il rapporto con la divinità e l’Altro Mondo era ancora forte e vitale; un Tempo in cui la dea-uccello insegnava le sue Leggi eterne attraverso le prove alle quali veniva sottoposto l’eroe. Che si trattasse di Ulisse, di Orfeo, di Gilgamesh<fn>Anche nell’epica sumero-accadica di Gilgamesh incontriamo lo stesso tema. Ishtar è la dea che sottopone l’eroe a molte prove.</fn> o dell’eroe di turno, “quello dai lunghi capelli” che tornava vittorioso dal Regno della Morte: «(mentre la nave dei Feaci riportava Ulisse a Itaca) intanto a lui un soave sonno cadeva sulle palpebre, un sonno profondo, dolcissimo, simile in tutto alla morte»<fn>Odissea, XIII, 79-80.</fn>. Il tema è sempre lo stesso, sempre legato al “ritorno a casa”, al “dove andremo dopo”. All’Altro Mondo<fn>«Il viaggio compiuto da Ulisse è un archetipo presente in tutte le culture della Terra», cfr. l’articolo “La Nostalgia” di Mauro Ruggirello, in: L’Eterno Ulisse n. 1, luglio 2012.</fn>. Ma tutto questo non è possibile senza l’intervento divino delle “potenze” che “tessono” il destino dei mortali.