
RAPHAEL PATAI, LA DEA DEGLI EBREI, VENEXIA, ROMA 2023
Raphael Patai (1911-1996), eminente antropologo culturale, mitologo, storico e biblista di fama internazionale, ha scritto questo libro nel 1967, ma in realtà ha continuato a rivederlo, modificarlo e ampliarlo per tutta la vita, pubblicandone una terza edizione nel 1990.
Ora finalmente possiamo leggerlo in italiano e apprezzare appieno la complessità e la profondità di questa ricerca, che ha richiesto innanzitutto una buona dose di coraggio, perché di fatto mina la convinzione che l’ebraismo sia una religione rigidamente monoteista e declinata al maschile, come da sempre si è creduto. Anche se è improprio attribuire un sesso all’unica divinità della tradizione ebraica, che è puro spirito senza corpo (17), Patai sostiene che il linguaggio ne tradisce invece la natura, perché i suoi appellativi sono tali che inducono i fedeli a formarsene l’immagine di un “uomo di Guerra”, un “Eroe”, “signore degli eserciti”, “Re”, “padrone dell’universo” e, per finire “Padre” (17-18). Pure le credenze più antiche e radicate, e non solo nel popolo, mantengono viva la devozione per una Donna Divina, che appare in molte forme diverse ma rimane sempre la stessa, ovunque.
Che un insigne studioso di religione ebraica lo riconosca e lo documenti è un fatto straordinario e testimonia un’onestà intellettuale assai rara, soprattutto se si pensa al momento storico in cui Patai espose le sue teorie, prima dell’esplosione popolare del movimento femminista alla fine del 1968, come scrive Merlin Stone nella sua prefazione alla terza edizione ampliata di questo libro (1990).
Per circa sei secoli, dal loro arrivo nella regione di Canaan (attuali Libano, Palestina e Siria) alla distruzione del tempio di Gerusalemme nel 586 a.e.v., gli Ebrei venerarono Asherah e resistettero con tenacia ai reiterati sforzi, di cui i racconti biblici danno numerosissimi riscontri, di eliminarne il culto per sostituirlo con quello dell’unico dio Yahweh.
Il nome di questa divinità femminile cananea si sovrappone a quello di Astarte e della Regina del cielo, probabilmente identica ad Anat. Sono tutte divinità antichissime che avevano ereditato le caratteristiche e le prerogative di quelle potentissime Dee, le cui prime raffigurazioni risalgono a trenta-quarantamila anni fa (11): sono l’origine della vita, umana e non, sono la materia stessa di cui è fatto l’universo, sono le potenze degli elementi naturali, sono le forze, positive e negative, che determinano gli eventi.
Patai analizza e documenta in modo meticoloso le differenze tra la dea Ashera venerata nella regione cananea, quella la cui adorazione si diffuse in Israele (a nord della Palestina, con capitale Samaria) e quella che penetrò nel Regno di Giuda (a sud della Palestina, con capitale Gerusalemme), fin dentro al tempio, nel cuore stesso dei sovrani, in particolare di Salomone, che fece erigere in suo onore luoghi di culto (32–33), identificandola con Astarte.
Il significato originale di questo nome è “utero” o “ciò che esce dal grembo” (54) e nella Bibbia ella compare come una dea della fertilità: l’autore sostiene che di fatto Astarte era solo uno degli epiteti della vera dea il cui nome era Anat (55). Sensuale e bellicosa, vergine e selvaggia, la sua figura, che richiama in maniera fortissima quelle della sumera Inanna e della accadica Ishtar, nella Bibbia compare come “regina del cielo” (61-62), i cui riti venivano celebrati sia nel tempio di Gerusalemme che in molti altri luoghi sacri del Vicino Oriente, in particolare in Egitto.
Nel tempio compariva anche una rappresentazione del femminino, che non fu mai tuttavia condannata dai profeti e dai saggi: si trattava di uno dei cherubini, statue di geni alati che si trovavano sopra all’arca dell’alleanza (71), nel santo dei Santi, il santuario più interno, e che erano state scolpite prima di tutto per adornare il Tabernacolo del deserto, il “santuario portatile” degli Ebrei durante la loro peregrinazione e i primi tempi della loro permanenza in Palestina.
I cherubini venivano considerati i destrieri di Dio, le nuvole che lo conducevano all’interno degli spazi sacri (74-75). Tra le diverse interpretazioni di queste immagini, molto interessante è quella di Filone, filosofo ebreo del periodo ellenistico alessandrino (I secolo e.v.), che li considera simboli dei due poteri di Dio, quello creativo, “virtù pacifica, mite e benefica” e quello regale, “virtù legiferante, castigatrice e correttiva (79-80). La prima virtù è maschile, la seconda femminile (81): in questa dottrina troviamo le radici del simbolismo kabbalistico medievale. Se Filone appare restio ad attribuire un significato preciso ai cherubini, Flavio Giuseppe si mostra reticente, quando addirittura non ne omette la descrizione. Patai attribuisce in un primo momento questo riserbo al timore che i nemici della religione ebraica, aniconica per eccellenza, potessero considerare queste raffigurazioni degli idoli e disprezzare di conseguenza i loro artefici. Tuttavia, approfondendo la sua analisi, egli collega la presenza dei cherubini alla sopravvivenza di culti orgiastici che si celebravano nella Festa delle capanne, in autunno: i rituali rappresentavano e sostenevano il grande ciclo mitico cosmologico e cosmogonico, che era garantito nel suo eterno ripetersi dallo ἱερὸς γάμος, il «matrimonio sacro» tra la Dea e Dio.
Questa connessione è rinforzata dal fatto che ad un certo punto le statue dei cherubini li rappresentavano abbracciati (91) come in un amplesso coniugale, tra la moglie Israele e Dio, il marito (95). Dunque la difficoltà di Filone e di Flavio Giuseppe può essere collegata all’ammissione implicita di un principio divino femminile accanto a quello maschile.
Le interpretazioni sul significato dei cherubini continuarono per molti secoli, anche dopo la distruzione del Tempio, e arricchirono nel Medio Evo i commentari kabbalistici, che, quando venne sviluppata la teoria mistica delle Sephirot, le dieci modalità in cui Dio si manifesta, videro nella coppia di statue la rappresentazione visiva appropriata di due delle più importanti entità divine, il Re e la Matronit (101).
Analizzando la nascita e lo sviluppo della Kabbalah (letteralmente ricezione, qualcosa che si è ricevuto dagli antichi maestri) (124), un movimento religioso ebraico che si diffuse in tutti i centri della diaspora tra il XIII e il XVII secolo, Patai sottolinea come si radicò la credenza nella Shekhinah, la presenza di Dio, o Matronit, quale intermediaria tra il popolo e Dio e dichiara: “non si può negare che ci si trovi di fronte alla venerazione di una dea” (127).
Nell’opera più importante dell’intera Kabbalah, lo Zohar o libro dello splendore, composto in Spagna intorno al 1286, l’unione del Padre e della Madre viene descritta nei termini e nei dettagli fisici inequivocabili di un rapporto sessuale (137) e porta alla nascita di un Figlio e di una Figlia, che saranno da questo momento in poi i veri protagonisti del racconto mitico.
Si produce in questo modo la tetrade, cioè il nome divino YHWH, in cui la Y rappresenta il Padre, la prima H la Madre, la W e la seconda H il figlio e la figlia (128). Le complesse vicende di queste entità, la cui natura divina e plurale mette in serio pericolo la teoria monoteistica, mostrano non solo che Dio senza la Matronit “non è un Re, non è grande e non è lodato” (144) ma sottolineano come la separazione dei due abbia generato sventura per il popolo di Israele (p. es. la distruzione del tempio), e sia stata a sua volta esacerbata dalle manchevolezze e dai cedimenti degli esseri umani, le cui azioni riverberano negativamente sulle divinità stessa.
Le tetradi sono presenti in molte altre mitologie, da quella egizia alla sumera, da quella ittita e cananea a quella greca e romana, da quella iraniana a quella induista e, infine, a quella giapponese (130-135), ma quella indiana presenta una particolarissima somiglianza con la tetrade della Kabbalah, soprattutto a proposito dell’impotenza di Dio se non unito alla Dea (148).
Sebbene Patai ricordi che le quattro entità venivano considerate intellettualmente dai sapienti come aspetti di un’unica divinità, egli non può negare che a livello emotivo esse fossero percepite così come erano descritte, differenti immagini divine della vita sessuale e familiare degli esseri umani (150). La visione mitica popolare della Matronit può essere paragonata alla devozione per Maria, che spesso è considerata lei stessa una Dea, la Madre di Dio (156). Quando il Re, dopo la distruzione del Tempio, si ritirò nei cieli, la Matronit rimase accanto al suo popolo, che la venerava nei suoi quattro aspetti fondamentali: la castità, la promiscuità, la maternità e la sete di sangue. In tal modo nella Shekinah – Matronit si ripresentano gli attributi delle antiche dee del vicino Medio oriente, come Inanna, Ishtar, Anat e Anahita (152-154), quelli che corrispondono alla “proiezione di tutto ciò che una donna può essere per sostenere l’uomo” (173). Questa curiosa affermazione di Patai squarcia il velo della sua prima inespressa convinzione profonda: quello che conta non è ciò che la Dea rappresenta in sé, ma ciò che un uomo desidera che sia. E i desideri delle donne? Ciò che una donna vuole? Ne parleremo più avanti.
Se la Shekinah – Matronit soffre in esilio col suo popolo, lo scopo di moltissimi rituali sarà quello di ottenere la sua riunificazione con Dio. Tali rituali si chiamano Yichudim (184-185) e finirono per caratterizzare l’esecuzione di qualsiasi mitzvah o comandamento religioso (188) con la concentrazione del cuore, kavanat halev, il pensiero rivolto sempre allo scopo fondamentale, la riunificazione e, di conseguenza, la pace nel mondo (200). Attraverso un percorso che impegna Patai nella descrizione delle diverse forme di riunificazioni, noi possiamo cogliere non solo le differenze interne al movimento kabbalistico e poi chassidico (ebraismo ortodosso del XVIII secolo), ma confrontarci anche con i suoi oppositori, i mitnagdim, che consideravano eretiche le teorie che prevedevano la presenza della Shekinah e la sua separazione da Dio (210).
A tutt’oggi tra gli ebrei chassidici askenaziti, sefarditi e orientali, le unificazioni rimangono un elemento essenziale e questo significa che la fede nella Shekinah è una “parte viva del sistema di credenze di queste comunità ebraiche” (221-222). Patai è convinto che proprio la coscienza che ciascun essere umano, anche il più povero, ignorante, sventurato, ha un valore importantissimo nel determinare gli eventi in cielo e in terra, abbia sostenuto nelle prove più terribili il popolo ebraico e gli abbia consentito di conservare non solo l’equilibrio mentale, ma di mantenere una visione ottimistica della vita (232).
Sebbene solo a pochissimi sia capitato di entrare in contatto con la Shekinah, attraverso l’esperienza visionaria, o con un suo messaggero, maggid, la fede in una versione femminile della divinità ha attraversato i secoli, declinata non solo nei suoi aspetti positivi ma anche in quelli demoniaci, come testimonia la figura di Lilith.
La prima menzione di una demonessa dal nome simile compare in una lista dei re sumeri del 2400 a.e.v., ma dal VI secolo e.v. è citata nella letteratura rabbinica e su coppe magiche ebraiche. Sebbene Lilith sia nominata una sola volta nella Bibbia (Isaia 34:14), nella tradizione popolare e nei racconti talmudici veniva rappresentata come un demone malvagio e considerata la prima moglie di Adamo (257 -260), che lei abbandonò per recarsi verso il Mar Rosso, in un luogo malfamato e abitato da numerosi demoni lascivi. Da allora Lilith rappresenta una minaccia per la virtù di tutti gli uomini, al punto che veniva proibito a un uomo di dormire solo in una casa, per scongiurare il rischio di essere sedotto dalla demonessa. Anche le donne devono temerla, perché ella è causa di sterilità, di aborti e di complicazioni durante il parto (262), dopodiché le creature piccole diventano le sue prede preferite: le tormenta, le strangola, ne succhia il sangue.
Nella Kabbalah viene stabilito uno stretto legame tra Dio e Lilith, che, in alcune delle molte versioni sulla sua origine, sarebbe stata creata prima di Adamo o, addirittura, sarebbe emersa come entità divina indipendente dallo stesso creatore (268), al fianco del quale si sarebbe imposta come consorte dopo la distruzione del Tempio, al posto della Matronit –Shekinah, di cui è l’esatto opposto (292). Secondo Patai vediamo agire sulla scena i due aspetti della componente femminile di Dio, che “lottano costantemente per l’uomo e all’interno dell’uomo” (294). Io di nuovo non posso fare a meno di chiedermi: cosa si agita all’interno di una donna? Quali conseguenze queste immagini del femminile divino hanno determinato sulla vita concreta delle donne di carne e ossa?
Prima di tentare di offrire una risposta agli interrogativi che la lettura di questa straordinaria ricerca di Raphael Patai ha suscitato in me, resta da analizzare la figura dello, o meglio della, Shabbat, un giorno della settimana che divenne un nume femminile: vergine, sposa, regina e dea (295).
Poiché Dio creò il mondo in sei giorni e il settimo si riposò, ogni israelita ha il dovere di fare altrettanto e astenersi dal lavoro. Alcune comunità ebraiche proibivano anche il rapporto sessuale in quel giorno, mentre invece la tradizione talmudica lo considerava un atto imprescindibile e il Kabbalismo poi gli attribuì un significato così speciale da trasformare quel giorno in una vera e propria divinità (297). Il filosofo Filone ricorda che i Pitagorici consideravano il numero sette simile alla Vergine Atena, senza madre e senza prole, mentre la letteratura talmudica personifica il sabato nella figura della sposa e della regina: in entrambi i casi lo identificano con una donna (301). Gli ebrei neri d’Etiopia, i Falascia, la deificano e ne fanno non solo la prima creazione di Dio, ma anche un’entità identica a lui e, allo stesso tempo, capace di conversare con lui (306).
L’apice della venerazione dello/a Shabbat fu raggiunto nel XVII secolo a Safad, centro dei kabbalisti palestinesi, ma il suo culto era iniziato già nel dodicesimo secolo. L’immagine zoharica di Dio che procede con le sue innumerevoli schiere per ricevere la sua sposa Shabbat, Santa Matronit, fu tradotta in un rituale settimanale (309). I kabbalisti di Safad lasciavano la città il venerdì sera per procedere fra i campi incontro alla Sposa, intonando il Lekhah Dodi, che ancora oggi viene intonato in ogni sinagoga. La regina si manifestava come stella della sera Ishtar – Venere che, quale dea dell’amore, suscitava emozioni erotiche e libidinose (313). Quello che però non dobbiamo dimenticare è che a queste processioni partecipavano solo uomini e che qualunque tipo di pulsione, anche quelle omoerotiche, veniva in ogni modo incanalata nell’amplesso coniugale, che, dopo un lauto pasto e molte libagioni, avveniva intorno alla mezzanotte. Questo era il momento giusto in cui accoppiarsi con la moglie, ma solo dopo aver pronunciato le parole “io compio il comandamento della copulazione per l’unificazione del Santo, benedetto egli sia, con la Shekinah”, come raccomandava il rabbino e sommo kabbalista Isaac Luria.
Patai sottolinea che questa celebrazione è sicuramente un’eco delle antichissime feste orgiastiche in onore di Astarte e che in entrambe le tradizioni è possibile ritrovare una risposta al bisogno di elevare e santificare l’impulso sessuale, che si trasforma in un rito sacro, con lo scopo di garantire l’influenza felice sulle più grandi realtà metafisiche e sull’universo tutto. Si tratta di lasciare operare la divinità femminile “il cui volto invisibile ma onnipresente si illumina in un sorriso benevolo e infuso di piacere” (319).
Il ruolo storico della Dea degli Ebrei è quello di salvaguardare la vita umana, proteggerne la sopravvivenza, valorizzare il godimento.
Come ripetutamente Patai ci ricorda, questo non è possibile se Dio resta da solo, se la divinità femminile viene cancellata, misconosciuta, dimenticata, come per secoli si è tentato di fare. L’autore stesso, che pure ha compiuto questo straordinario lavoro di riscoperta, ha in mente solo il punto di vista maschile, anche perché le testimonianze cui si appella sono tutte opera di uomini. Oggi ogni donna può testimoniare, quando abbia compiuto un percorso di consapevolezza e abbia riacquistato il senso del proprio valore, quale sia l’importanza di avere come punto di riferimento trascendente un esempio di divinità che si coniuga al femminile, rimanendo radicata nel suo desiderio e nella forza delle sue relazioni, che sono asimmetriche rispetto ai desideri e alle modalità relazionali di un uomo. Come le antichissime Grandi Dee, ogni donna ha in sé molteplici potenzialità, che vengono avvertite, secondo una logica binaria, come contraddizioni, ma che sono proprie della natura femminile, sempre in divenire tra sé e altra-o da sé.
La presenza normativa di un unico Dio con caratteristiche solo maschili è stata per le donne una minaccia costante per la loro libertà, mentre il suo potere assoluto si è rivelato una gabbia mortifera. La pluralità, condizione umana in generale, ma attributo femminile in particolare, si sostanzia nella Dea, che appare insieme benevola e crudele, casta e voluttuosa, vergine e madre, donatrice di vita e foriera di morte, celeste e terrestre, solare e ctonia. Una contraddizione vivente che non ha e non cerca mediazioni o superamenti.
È venuto ormai il tempo in cui le donne possono assumere il valore di questa differenza e comprendere come il maschile stesso trovi le sue radici nel femminile, non viceversa, come si è sempre pensato. Nel Cristianesimo sono Anna e Maria, nonna e madre, a garantire la venuta al mondo di Gesù, la diffusione della Buona Novella, l’incarnazione del divino. Così quello che auspicava Merlin Stone, nella sua prefazione alla terza edizione del libro di Patai, è accaduto: Dio è venuto in terra per unirsi alla Dea ed è rimasto qui con Lei.
La teologa Elisabeth Schlüsser Fiorenza (cfr. Gesù, figlio di Myriam profeta della Sophia, Claudiana, Torino 1996 cit., p. 172) mette in evidenza come alle donne non venga detto che Gesù è asceso al cielo, al Padre, ma solo che “la tomba è vuota”: ciò colloca il Risuscitato sulla terra, in Galilea.
Nell’introduzione al suo libro, così scrive Raphael Patai: “La dea ebraica è morta, o sta semplicemente dormendo, per risvegliarsi presto? … ma se dovesse rinascere, possiamo aspettarci che ciò avvenga solo nella Terra d’Israele…. Sarà lì che, semmai, riemergerà in chissà quale sorprendente antica e nuova immagine, per mediare, come da sempre tra l’uomo e Dio” (23).
Io credo che la Dea sia proprio lì, ora, e stia guidando le donne di Woman Wage Peace, associazione fondata in Israele nel 2014 e che adesso realizza iniziative comuni con le militanti palestinesi di Women of the Sun, associazione indipendente nata nel 2021 con circa mille iscritte.
Il 4 ottobre 2023 hanno sfilato tutte insieme vestite di bianco, stringendo le mani delle le une delle altre, in una grande marcia per la pace. Tre giorni dopo, il 7 ottobre, una di loro, Michal Halev è diventata la madre di un figlio morto: Laor, 20 anni, ucciso dai miliziani di Hamas.
“Fermatevi, la guerra non è la risposta — chiede ora in un appello — Israele, le madri di Gaza, il popolo ucraino, tutti stiamo attraversando l’orrore. Non uccidete più i nostri figli”.
Il comunicato ufficiale dell’associazione suggerisce amore, non certo odio: “Anche oggi, tra il dolore e la sensazione che la fiducia nella pace sia crollata, tendiamo una mano di pace alle madri di Gaza e della Cisgiordania. Noi mamme insieme alle donne di tutto il mondo dobbiamo unirci per fermare questa follia”.
Nella loro memoria ancestrale queste donne conservano l’immagine di una Dea che ha preceduto per millenni il dio degli eserciti, signore dell’universo, dominatore della Natura e di tutti gli esseri viventi, le cui origini si radicano nell’immaginario maschile. Non è solo la Dea degli Ebrei, è la Divina energia che muove l’universo tutto, al di sopra delle singole fedi, appartenenze politiche, origini geografiche. Non è venuta a mediare tra l’uomo e Dio, come credeva Raphael Patai: è qui per esautorare definitivamente un’immagine del divino di radice solo maschile, che nei secoli ha sostenuto un ordine simbolico, sociale e politico patriarcale, violento e mortifero.
Regina della pace, Madre di misericordia e di speranza, Origine della nostra gioia, Consolatrice, Sede della Sapienza, Madre di Dio: a Lei donne e uomini, credenti e non, possono rivolgersi per ritrovare la felicità sulla terra, qui e ora, prima che l’insipienza, la tracotanza, la violenza cancellino ogni traccia di gioia e di vita sull’intero pianeta.
Nadia Lucchesi 29 gennaio 2024
N.B. I numeri tra le parentesi indicano le pagine del testo.