Spiriti del Sangue, Spiriti del Respiro

Spiriti del sangue. Spiriti del Respiro. Il Cosmo Gemellare degli Indiani d’America
Barbara Alice Mann
ed. Le Civette di Venexia

Questo è un libro davvero prezioso. Ci accompagna in un viaggio alla scoperta della filosofia delle culture native nord americane, trasportandoci all’interno del Cosmo Gemellare indiano, popolato da serpenti e uccelli di tuono, nani e giganti. Barbara Alice Mann, autrice del libro, ci restituisce con l’autenticità di chi incarna il sapere di cui parla la dimensione spirituale degli abitanti dell’Isola della Tartaruga (Nord America), descrivendola dalla prospettiva di un’indigena che vive la tradizione e ne è custode per il suo popolo. Ci dona un testo che con chiarezza descrive molte sfaccettature della spiritualità indiana, distinguendo ciò che vi appartiene da ciò che non vi appartiene.

Il libro inizia con un lavoro scrupoloso di analisi delle fonti e di decostruzione delle interpretazioni che non sono in linea con la visione indigena, mettendo in luce la falsità e il razzismo delle teorie formulate dagli accademici occidentali, le mistificazioni attuate dai ricercatori e dai resoconti dei missionari, con tutte le influenze del Cristianesimo e del monoteismo. Con sguardo lucido, Mann descrive e denuncia le offese e i danni arrecati alla spiritualità indiana dal genocidio culturale e dall’assimilazione forzata, operati dal governo degli Stati Uniti tramite la messa al bando dei sistemi spirituali nativi, la cristianizzazione coatta i collegi.

Con uno stile narrativo diretto e ironico, che riproduce la tecnica della retorica indigena, vestendo i panni del “buffone sacro” per sottolineare con sarcasmo le contraddizioni e le falsità storiche e antropologiche che emergono dallo studio delle fonti, Barbara Mann ci guida passo dopo passo nell’esplorazione della filosofia nativa e della sua complessità affinché possiamo cogliere i legami di interdipendenza tra i vari elementi sulla terra e nel cosmo, secondo un sistema formato da coppie gemellari che mantengono gli equilibri. Per noi occidentali, si tratta di compiere uno sforzo intellettuale volto a uscire fuori dal modo solito con cui pensiamo il mondo.

Conscia del fatto che «l’unico modo per comprendere la Tartaruga è prenderla alle sue condizioni» (pag. 57), Barbara Mann svolge un prezioso lavoro di traduzione culturale, denunciando anche il fenomeno più vicino a noi dell’appropriazione indebita di tratti culturali indigeni da parte di alcuni gruppi sociali o movimenti spirituali europei contemporanei, che utilizzano concetti e pratiche native senza averne colto il significato profondo all’interno della cultura originaria di appartenenza. È il caso, ad esempio, della capanna del sudore, largamente proposta nei circoli new age.

Mann ha non solo il merito di restituire dignità e autorevolezza alla concezione indiana come sistema complesso e strutturato di nozioni e immagini, ma anche di istruire il lettore sulle differenze, determinate localmente, delle varie tradizioni che compongono tale sistema. Apprendiamo come ognuno dei popoli indiani americani possieda le proprie storie, le proprie nomenclature e caratteristiche, che purtroppo l’erudizione accademica ha teso ad amalgamare in un patrimonio condiviso, appiattendo ogni differenza e specificità.

Pur essendo molto dettagliato, questo libro è più di una raccolta di informazioni, storie, dati e narrazioni mitiche. È la correzione con l’esempio dell’attribuzione errata, è la spiegazione secondo l’ottica della cosmo-visione nativa. Cercare di avvicinarsi alla visione indigena utilizzando la logica aristotelica lineare – le cui categorie considerano ogni elemento come isolato e frantumano gli accoppiamenti del Cosmo Gemellare – risulta fuorviante, in quanto non siamo soliti cogliere le relazioni armoniche tra le varie componenti, ognuna delle quali è per i nativi interconnessa all’altra poiché interdipendente. Tutto ciò che esiste, esiste in due metà, che sono inseparabili e si rafforzano vicendevolmente.

Il concetto cardine su cui si basa l’intera cosmo-visione indiana è l’equilibrio, che stabilisce la perfetta parità del Cosmo Gemellare come unione di principi polari e complementari, nessuno dei quali ha prevalenza sull’altro. «La progressione 1:2:4:8, che scaturisce dal potere del due, regola tutta la vita sulla Tartaruga» (pag. 59).

La completezza attraverso l’interdipendenza è un principio cosmico, dunque per gli Indiani i numeri dispari sono considerati bizzarri, poiché nessun elemento unico è visto come completo, ma come frazione dell’insieme gemellare. Per tale motivo, il tre – che nella visione occidentale ha una posizione di tutto rispetto – indica mancanza di completezza, è indice di pericolo o di sforzo e richiede una particolare attenzione. L’approccio indigeno presuppone che tutto avvenga per insiemi appaiati o abbinati raddoppiati e l’equilibrio è considerato «la fluida collaborazione delle metà per ogni insieme» (pag. 63).

Uno dei più importanti riferimenti alle due metà si trova nella gemellarità del “Sangue” e del “Respiro”. Mann spiega come il Sangue comprenda la creatività e la vita: quella espressa dalla forza delle donne attraverso la loro capacità di sanguinare senza ferite, portando nuova vita dal loro grembo. E mette in luce il ruolo delle donne e della loro Medicina del Sangue, sottolineando l’importanza del clan materno come fulcro dell’identità indigena e della proprietà della terra e riconoscendo nel matriarcato la forma originaria di società indiana americana, precedente al contatto con gli occidentali. Nell’ottica indiana, l’aspetto creativo del sangue è appannaggio esclusivo delle donne, mentre il sanguinamento maschile è considerato distruttivo perché deriva da ferite.

La Medicina del Sangue comprende tutti i tipi di acqua, fiumi, laghi e paludi, attraverso i quali Madre Terra dà vita al pianeta, scaturendo dalle profondità e dalle caverne, considerate il suo grembo. Gli uomini sono invece connessi al Respiro, la cui Medicina si collega ai concetti di vento, ali e parola, determinando la capacità di creare vibrazioni fisiche nell’aria, motivo per cui i canti sono tradizionalmente considerati una pratica maschile, come il suonare il tamburo.

Anche le due metà del cosmo possono essere rappresentate come maschili e femminili: l’asse est-ovest è maschile (Respiro), mentre quello nord-sud è femminile (Sangue). Tramite questo sistema assiale possiamo vedere come le quattro direzioni della terra siano in realtà due. E si riflettono nel cielo, dando luogo a una coppia cosmica costituita dai Quattro Serpenti, che tengono ferma la metà terrestre del cosmo, e dai Quattro Venti, che fissano il cielo. Dal momento che tutto è interconnesso, gli scambi avvengono internamente al complesso nord-sud del Sangue e a quello est-ovest del Respiro; est e sud sono legati al Respiro, ovest e nord al Sangue, in un’ulteriore contaminazione reciproca. Mann spiega che «ciascuna metà del cosmo, la terra femminile e il cielo maschile, replica infinitamente al suo interno maschile e femminile, come in un frattale» (pag. 72). In tal modo, Madre Terra contiene numerose coppie Sangue/Respiro, come i Serpenti Cornuti maschili e le tartarughe femminili, nella stessa maniera in cui, ad esempio, Padre Cielo contiene il sole e la luna, considerati maschile o femminile a seconda del popolo indiano coinvolto.

Ogni cosa nella cosmo-visione nativa americana è compresa nel principio di Gemellarità, determinando quali siano le coppie compatibili, come dimostra Mann con numerosi esempi. Se il Sangue stabilisce i legami di lignaggio, il Respiro definisce il tipo di identità che si connota geograficamente nello spazio. Per i nativi, il luogo fisico in cui si risiede ha il potere di plasmare tutta la coscienza, non solo umana, ma anche quella di piante, animali, minerali, acqua (Sangue), nonché di venti, costellazioni, pianeti, stelle nello spazio intorno (Respiro). Le interrelazioni e le connessioni tra gli elementi che occupano uno spazio determinato danno vita a una specifica coscienza e questa profonda connessione col luogo è il vincolo della spiritualità indigena, che dunque risulta “radicata nella spazialità”, così che «lo spazio è il principio organizzatore delle nozioni tradizionali di storia indiana» (pag. 74).

Non conta solo la collocazione fisica sulla terra, ma altresì quella legata alle stelle e alle costellazioni, che hanno un genere, sono speculari e sono replicate nella collocazione dei tumuli di pietra, dimostrando quanto gli Indiani siano sempre stati degli esperti astronomi, a dispetto della difficoltà degli studiosi occidentali nel riconoscerlo. Mann riporta l’esempio della coppia formata dalle Sette Sorelle (le Pleiadi) e dei Sette Fratelli (la Corona Boreale), la quale costituisce un’iconografia molto presente nella tradizione in modo cerimoniale: le prime sono visibili a partire dalla metà dell’inverno fino a tutta la stagione della semina, in quanto l’agricoltura è considerata un’attività femminile, mentre i secondi compaiono a mezza estate, quando gli uomini si pongono in viaggio per partecipare ai consigli tribali in luoghi lontani.

I clan custodiscono il cielo e la terra operando come delle metà, cioè come gemelli cooperanti, ognuna delle quali è abbinata alle stagioni. Così, ad esempio, le metà dei clan dei popoli dello Iowa erano quelle del Bisonte (Sangue) e dell’Orso (Respiro), che condividevano la leadership due stagioni per una all’anno: l’Orso per l’autunno e l’inverno e il Bisonte per la primavera e l’estate. Ciò si riflette nella simbologia dei tumuli di pietra, come quello degli Orsi Marcianti, costruiti a immagine del cielo secondo precise corrispondenze. Allo stesso modo, gli Hopi avevano tracciato la costellazione di Orione, riproducendo la disposizione delle stelle nella mappa delle loro città.

Per gli Indiani, infatti, le costellazioni sono espressione della Medicina del Respiro, da integrare con le loro controparti della Medicina del Sangue, ossia grazie alla loro riproduzione nei tumuli o nella disposizione delle abitazioni. La finalità è sempre quella di mantenere l’equilibrio, salvaguardando il principio di Gemellarità cosmica. In tale visione, il sacro unisce le metà per onorare l’insieme gemellare della creazione, in modo che nessuna potenza sia sbilanciata, cioè separata dalla sua controparte speculare o su di essa prevalente.

Le coppie terra/cielo sono riprese in alcune storie tradizionali in cui un Marito o una Moglie delle Stelle si accoppiano con una donna o un uomo terrestri. Nello stesso modo, il tema degli incroci bilanciati è presente nelle storie di terra, nelle quali Spose Cerve (Respiro) e Sposi Serpenti (Sangue) scelgono i compagni e le compagne tra gli esseri umani. Nella cosmo-visione indigena, il serpente, creatura del Sangue, è un animale collegato a Madre Terra come suo guardiano e protettore dei siti sacri, petroglifi o spirali di pietra. Spirali e uova sono connesse ai serpenti e nelle caverne sono poste sul terreno, laddove la volta brillante di cristalli di quarzo o dipinta si collega allo sperma, che aleggia nel cielo. La pelle del serpente è ritenuta il cordone ombelicale di Madre Terra e veniva impiegata dalle donne incinte per assicurarsi un parto indolore e sicuro, in quanto quella del serpente è una Medicina femminile, che riflette la posizione cosmica delle donne come co-custodi della Terra.

Perciò, le storie di serpenti, particolarmente quella del Serpente Cornuto, si basano sulla potenza del Sangue e il principio femminile. In numerose storie tradizionali, il Serpente Cornuto assume le sembianze di un uomo per sedurre una donna, poiché la desidera sessualmente. Questa creatura possiede un potere sanguigno molto forte, tanto che le mestruazioni, che normalmente interferiscono con la potenza del Respiro maschile, su di essa non hanno influenza.

Il principio di Gemellarità esige che la potenza del Serpente Cornuto sia bilanciata da un potere equivalente del Respiro, rappresentato dall’Uccello di Tuono. In varie versioni tale Uccello ha grandi dimensioni e provoca tuoni sbattendo le ali, mentre fulmini escono dai suoi occhi, collegandosi inoltre alle tempeste, che si sviluppano quando appare. A donne e uomini spetta il compito di favorire tale alleanza, collaborando al mantenimento dell’armonia e dell’equilibrio: l’interfaccia del Serpente e dell’Uccello di Tuono esiste, perciò, come una “tensione che necessita il contributo umano per mantenere la propria coesione cosmica”. Tutti i racconti del conflitto tra questi animali racchiudono questo messaggio. Il focus non va sullo scontro, ma sul fatto che nessuna delle due metà deve prevalere sull’altra perché lo scopo è l’equilibrio.

Uno dei modi per entrare in connessione con la Gemellarità cosmica è attraverso le capanne del sudore maschili e femminili, cerimonie di primaria importanza per la medicina indigena. B. Mann ne descrive gli usi, spiegando il significato di questa pratica sacra alla luce della cosmo-visione gemellare. Dalla descrizione dell’autrice appare subito chiaro quanto la capanna sudatoria sia una pratica spirituale estremamente seria, purtroppo spesso “rubata” ai nativi da occidentali che se ne appropriano senza conoscere a fondo la cosmo-visione entro cui la capanna trova collocazione e la Medicina collegata al sudore. Nell’ottica indiana, «il sudore nasce da un rapporto viscerale, spaziale, con la coscienza-altra» (pag. 103). La capanna collega coloro che sudano alla Gemellarità del cosmo ripristinando l’equilibrio compromesso, motivo per cui la conoscenza corretta della prassi rituale è necessaria per non produrre danni, dal momento che la ricostituzione dell’equilibrio infranto potrebbe avere enormi ripercussioni. La correzione di uno squilibrio coinvolge infatti tutte le parti, esigendo che ognuno svolga il proprio compito per porvi rimedio.

Nella visione nativa coloro che hanno più bisogno di sudare sono quelli che uccidono. Tradizionalmente, ci si riferiva alla morte degli animali durante la caccia e non a quella provocata dalla guerra, in quanto l’attività bellica indigena non era strutturata per uccidere. Lo scopo dei vincitori era incrementare la base demografica del proprio clan con l’inclusione dei vinti, dunque un gran numero di morti avrebbe inficiato la buona riuscita dell’impresa. Pochi prigionieri venivano uccisi solo dopo un processo che ne stabiliva la colpevolezza, mentre la gran parte della popolazione vinta era inglobata nella tribù vincitrice, mediante una forma di adozione. Per gli Indiani, infatti, l’obiettivo era l’onore, non la morte, mentre lo scopo dello scontro non era l’uccisione ma la vittoria sugli avversari in una competizione corpo a corpo. Fu il contatto con gli Europei a modificare questo stato di cose, portando un concetto di guerra totale e senza fine, capace di lasciare dietro di sé una scia sanguinaria di morte.

Rispetto alla tradizione delle capanne femminili, Mann compie un’attenta analisi del ruolo delle donne e della loro Medicina, connessa al Sangue, confutando numerosi assunti elaborati sia dai ricercatori occidentali sia da “un certo tipo di femministe”. Nella percezione indigena, le mestruazioni erano il Grande Mistero e ad esse non veniva associato alcun concetto di “limitazione”, “sporco” o “malattia”. Al contrario, il Sangue femminile era ritenuto molto potente, soprattutto una volta che le donne avevano sincronizzato i propri cicli. Al menarca di ogni giovane fanciulla, che ne segnava l’accoglienza nel Grande Mistero delle donne del suo clan, veniva organizzata una capanna del sudore per lei, realizzando una grande Medicina insieme alle madri, alle sorelle e alle zie.

Il potere del Sangue era considerato così prorompente che nei giorni del mestruo le donne si allontanavano dagli uomini per isolarsi nelle capanne della luna, in quanto si riteneva che costoro non potessero passare vicino a una donna mestruata senza subire conseguenze poco piacevoli. Questa separazione era volontaria, tutt’altro che un’imposizione maschile e rispondeva alla necessità di tenere separate le Medicine del Sangue e del Respiro. Una volta raggiunta la menopausa e l’età della saggezza, la donna era ritenuta al sicuro da ogni forma di Medicina, motivo per cui avrebbe potuto avvicinarsi o addirittura entrare in una capanna sudatoria maschile, attività normalmente proibita poiché tradizionalmente uomini e donne sudavano separatamente. Questo perché come il Respiro non è una Medicina naturale per le donne, così il Sangue non lo è per gli uomini.

Inoltre, le donne non hanno la necessità costante di sudare come gli uomini, dal momento che hanno un utero, dunque possiedono il loro sudore interno. Mann sottolinea fortemente come la capanna della luna non fosse una capanna sudatoria, come presumevano i testi occidentali – con pietre calde, erbe, vapore e procedura rituale specifica – perché il mestruo non era affatto ritenuto uno squilibrio, ma, al contrario, “la perfetta espressione della creatività del Sangue” (pag. 115). La capanna della luna era piuttosto un’abitazione appartata, nella quale le donne si recavano per dieci giorni al mese, libere dall’intrusione maschile. Tale era un tempo dedicato alla socialità tra donne, all’artigianato e alla guida delle giovani che stavano diventando adulte, con tutte le loro responsabilità di ruolo.

Il mestruo maschile è il sudore poiché gli uomini non hanno l’utero, perciò una pratica prevedeva che essi dovessero procurarsi dei tagli per simulare il flusso del naturale sanguinamento femminile. Lo spazio angusto, il calore, l’umidità simulano le condizioni interne all’utero, poiché la capanna del sudore «è concepita come l’utero di Madre Terra, capace di dar vita a possibilità infinite» (pag. 116).

Un altro tipo, molto specifico, di capanne sudatorie descritto da Mann è quello delle “tende che tremano”, riservata a persone ritenute sacre, che possedevano una preparazione adeguata e un certo grado di protezione, poiché questa pratica veniva svolta a beneficio dell’intera comunità. Tali tende erano impiegate dagli uomini e dalle donne di Medicina per contattare, a scopo di preconizzazione, “Coloro che fanno le luci”, cioè una classe di spiriti che si manifestavano con bagliori luminosi. Le tende che tremano erano associate alla Medicina del Respiro poiché legate al movimento e alla levitazione.

Il sudore dei Vivi fa da controparte a quello dei Morti. Le pratiche sepolcrali indiane prevedevano che il defunto, dopo una veglia di durata variabile a seconda della cultura, fosse esposto all’azione degli uccelli saprofagi, principalmente avvoltoi, che ne scarnificavano le ossa. Una pratica più antica prevedeva le esequie sugli alberi, con la stessa funzione di quelle svolte su piattaforme. Presso i Costruttori di tumuli, inoltre, si usava la cremazione per le persone comuni e l’inumazione dello scheletro completo per persone di rango più elevato. Il fatto che siano state ritrovate nelle sepolture ossa lunghe rotte e teschi spaccati ha dato adito a un grosso equivoco, poiché gli archeologi vi hanno visto una prova di cannibalismo, laddove invece questa pratica per i nativi facilitava il viaggio degli spiriti. Per gli Indiani americani, gli esseri umani hanno due spiriti, che devono essere entrambi rilasciati al momento della morte in modo armonioso, assicurandosi che la potenza del Sangue sia bilanciata da quella del Respiro, pena la trasmutazione in creature vampiresche, con grande danno non solo per tutta la comunità, ma anche per animali, piante, rocce. Lo spirito del Respiro fuoriesce dal cranio, quello del Sangue dal midollo osseo. Ecco perché frantumare le ossa: un metodo per favorire il rilascio dei due spiriti. Sia la cremazione, il sudore dei morti, che l’inumazione delle ossa negli ossari comuni erano metodi impiegati per assicurarsi una dipartita equilibrata.

Mann denuncia l’appropriazione del concetto indigeno dei due spiriti da parte della comunità LGBTQ americana, colpevole di aver distorto il significato originario per adattarlo alla necessità di trovare dei termini con cui auto-definirsi. Il pericolo che viene messo in luce dall’autrice è quello di privare gli indigeni del loro modo di esprimere la propria tradizione, perpetrando così il dominio coloniale. Nella concezione indiana del Cosmo Gemellare di Madre Terra-Sangue e Padre Cielo-Respiro, avere due spiriti è questione di parentela e non ha a che fare col genere o l’orientamento sessuale. Lo spirito del Sangue è trasmesso dalla madre, quello del Respiro dal padre, in rifrazioni frattali che si ripetono, come nell’appartenenza di ciascuno a un clan (madre-Sangue) e a una nazione (padre-Respiro).

Un capitolo del libro che trovo particolarmente interessante è quello che descrive la gemellarità di sogni e visioni come strumento di conoscenza. Questa parte del testo tocca dei punti fondamentali che chiariscono la differenza di approccio tra la scienza occidentale e quella nativa. Gli occidentali riconoscono lo stato di coscienza di veglia, basato sui cinque sensi. Lo stato di coscienza non ordinario, extra-materiale, è percepito come pericoloso per l’intelletto e sottoposto al biasimo e allo screditamento, con la conseguenza di aver vietato ogni via d’accesso a qualunque stato di coscienza altro, presupponendone l’irrealtà, l’immoralità, la pericolosità. Gli ausili tradizionali al sogno e alla visione, le piante sacre delle popolazioni indigene, sono chiamate con l’appellativo di “allucinogeni” e ritenute dei mezzi edonistici di evasione. Per i nativi americani, sogni e visioni non derivano da rielaborazioni della psiche ma sono «intrusioni nella realtà materiale da parte di un’intelligenza auto-conoscente, anche se inconsistente, proveniente da altri domini» (pag. 136).

Il Sangue si collega ai sogni, il Respiro alle visioni. La danza, che mette i piedi a contatto col terreno, e l’ingestione di sostanze vegetali o di bevande ottenute dalle piante sono mezzi che potenziano il Sangue, mentre il fuoco e il fumo, derivante dalla combustione di foglie o steli sono collegati al Respiro. La danza (Sangue) e il canto (Respiro) si uniscono per aprire le porte della percezione verso stati non ordinari di coscienza. A differenza di quanto ritennero gli studiosi occidentali, fuorviati dalla tendenza a considerare positivo o buono ciò che viene dall’alto e, dunque a considerare preferibile la visione, nella mentalità binaria indigena sogni e visioni sono entrambi necessari e hanno un pari valore. Sono informazioni che arrivano dallo Spirito con lo scopo di essere condivise nella comunità per il suo bene. In seguito alla visione o al sogno, l’accesso allo Spirito poteva essere stabilito tramite una borsa degli spiriti. Mann sottolinea come la tendenza degli studiosi di escludere l’esistenza dello spirito renda difficile la comprensione della reale natura di questa borsa, la quale non è un “simbolo” ma uno strumento di collegamento con la dimensione spirituale. Al suo interno, in armonia con la visione gemellare, oggetti legati a entrambe le metà gemellari e integrati.

Un’altra coppia che riflette la Gemellarità Sacra è costituita da nani e giganti, rispettivamente legati a Sangue e Respiro. Mann denuncia il pregiudizio degli etnologi riguardo le storie tradizionali sui nani, considerate di scarsa importanza e perciò meno documentate, rispetto al grande interesse suscitato dai giganti. Questa etnografia parziale disturba l’equilibrio indigeno nella narrazione, poiché tralascia una delle due metà del cosmo, nello specifico quella legata al Sangue, occultando quindi il ruolo dei racconti tramandati dalle donne.

Giganti e nani possiedono un grande impatto sulla vita umana. Nelle storie tradizionali più antiche, essi provengono dal cielo e sono stati posti sulla Terra per averne cura e per collaborare con gli uomini. Tuttavia, col tempo essi mutarono la loro natura e il loro atteggiamento, divenendo ostili e dannosi per gli esseri umani. Sebbene alcuni tra loro siano rimasti fedeli ai compiti originari, in epoca storica giganti e nani si erano trasformati in creature moleste e pericolose, tanto da costringere gli uomini a difendersi, rubando la loro tecnologia e uccidendoli. Dai resoconti possiamo osservare come i giganti nelle descrizioni abbiano stature sempre minori a mano a mano che dai più antichi si procede ad analizzare i più recenti. In compenso, la loro ferocia e pericolosità aumentano. Capelli rossi, potenza del Respiro e posizione di supremazia sono presenti in tutta l’Isola della Tartaruga nelle storie sui giganti più recenti, le Teste Rosse. I nani, a differenza dei giganti, mostrano qualcosa di simile a una coscienza, per cui non erano necessariamente ostili verso gli esseri umani, coi quali condividono la sveltezza intellettuale. Nelle storie tradizionali, vengono descritti vari tipi di nani, che condividono tuttavia alcune caratteristiche: la capacità di mutare forma, l’atteggiamento ambiguo sugli scopi delle loro azioni, la vita sotto terra, l’enorme forza.

Dall’analisi dell’autrice risulta chiaro come per gli occidentali il più grosso ostacolo alla comprensione del Cosmo Gemellare indiano, oltre al pregiudizio riguardante una loro presunta superiorità culturale, sia l’impostazione teleologica aristotelica del pensiero europeo. Gli abitanti dell’Isola della Tartaruga, infatti, considerano ogni cosa, ogni essere umano, ogni pensiero e azione come parte del mondo spirituale. Tutto si compenetra con tutto, influenzando la realtà mentre si manifesta. Non esistono elementi separati, né linee temporali nette. Nessuna separazione tra corpo e anima, nessuna dualità oppositiva. La differenza tra i due quadri di riferimento culturali, quello europeo e quello indigeno, è netta, tanto che Mann afferma: «nulla nella cultura euro-cristiana può preparare gli Europei a comprendere alcunché della cultura indigena americana» (pag.238).

Questo è particolarmente vero quando si analizzano le fonti sulla concezione della morte, sulle direzioni di viaggio nell’aldilà e sui diversi tipi di ritorno, che rappresentano un chiaro esempio di distorsione ideologica da parte dei ricercatori. Invece di valutare direttamente le fonti indigene primarie, gli studiosi odierni si basano su fonti europee che risultano ideologicamente distorte, col risultato di rafforzare gli errori dei loro predecessori invece di confutarli. Mann denuncia il Pensiero Unico, che nega la complessità del sistema filosofico indiano, cercando di ricondurla a qualcosa di noto e distorcendone così gli elementi. In particolare, il monoteismo con i suoi corollari, primariamente il concetto di immortalità, hanno molto influenzato l’interpretazione della concezione indigena della morte.

Nel pensiero indigeno non esiste un aldilà infelice, né un Dio giudicante che infligge punizioni o ricompense, né tantomeno moralismo. Lo stesso concetto di un unico spirito onnipotente è inconcepibile per la visione nativa, poiché viola gli insegnamenti del Cosmo Gemellare. Importanti sono invece alcune condizioni, che assicurano la buona riuscita del viaggio dei due spiriti: riti funebri eseguiti nel modo corretto, corredi funebri completi di ciò che serve agli spiriti per viaggiare, abilità della persona defunta e semplice fortuna.

La confusione intorno a questi concetti è dovuta ai rimaneggiamenti dei cronisti, che per cinque secoli hanno contribuito ad alterare la tradizione indiana americana, assimilandola a quella cristiana. Questo è visibile ad esempio nella sovrapposizione delle due direzioni della morte con paradiso e inferno e riporta numerosi esempi in cui i concetti indigeni sono stati distorti e cristianizzati, mettendo così in luce il processo di compenetrazione tra la spiritualità cristiana e quella indigena avvenuta nel corso dei secoli.

L’autrice compie un’attenta analisi delle cronache cristiane, filtrandone gli elementi extra inseriti dagli occidentali, con lo scopo di riconquistare la sacra Gemellarità della morte e della rinascita nella tradizione indiana americana originaria. Mann descrive perciò la complementarietà di Sangue e Respiro, questa volta nei termini dei loro distinti regni spirituali, popolati da spiriti e fantasmi. Queste entità hanno una loro identità specifica, poiché si considerano fantasmi alcuni spiriti pericolosamente squilibrati a causa del loro smarrimento durante il viaggio nella terra della morte. Questo poteva avvenire per vari motivi, ad esempio in periodo di guerra, quando il dolore per la perdita era espresso in modo eccessivo dai vivi, quando il corredo funebre veniva consumato, in caso di omicidio.

Nonostante gli Europei non abbiano notato differenze, i fantasmi del Sangue e quelli del Respiro sono entità con caratteristiche differenti. I fantasmi del Respiro, associati spesso ai gufi, erano considerati più pericolosi di quelli del Sangue a motivo della loro natura, l’intelletto astuto non mediato dal sentimento del Sangue e, perciò, sbilanciato.

Resurrezione (Respiro) e rinascita (Sangue) sono le due modalità legittime per i due spiriti di tornare nello spazio dei vivi (Gli Indiani assegnano luoghi ai vivi e luoghi ai morti, essendo fortemente legati alla spazialità). Nonostante gli occidentali abbiano spesso confuso i due termini, per gli Indiani si tratta di due cose ben distinte: nella resurrezione è la stessa combinazione di spiriti a fare ritorno, mentre nella rinascita sono due differenti spiriti. Ancora una volta, come ben specifica Mann, si tratta di concetti collegati al Cosmo Gemellare del Sangue e del Respiro. Ponteggi e scale (simboli dell’ascesa dello spirito), acqua e direzione di orientamento della sepoltura erano condizioni considerate estremamente importanti al fine di prevenire il ritorno di fantasmi, come bene è esemplificato dall’autrice, che riporta numerosi esempi dimostrando come questi riferimenti fossero presenti in tutta l’Isola della Tartaruga.

La resurrezione funziona riportando in vita gli stessi spiriti, nello stesso corpo, nella stessa vita. La reincarnazione è un processo diverso, in cui gli spiriti si uniscono per animare un corpo totalmente nuovo, in un tempo diverso e, a volte, anche in uno spazio diverso, ad esempio non terrestre. Nel complesso, gli spiriti si reincarnano all’interno delle stesse comunità e degli stessi lignaggi familiari di cui hanno già fatto parte. La reincarnazione è un mutamento di forma.

Gli Indiani concepiscono la vita come un flusso, «uno stato dell’essere continuo seppure mutevole, con tutti gli atomi in costante movimento. Non c’è inizio e non c’è fine, solo lo svolgimento. In questo flusso le cose cambiano, passano da una forma all’altra» (pag. 283). L’escatologia è un concetto totalmente estraneo alla mentalità indigena. Mann è molto attenta nel considerare i motivi che hanno portato gli studiosi a non trovare prove di una reincarnazione autenticamente indigena. Innanzitutto, l’erronea convinzione che il concetto di reincarnazione nativo corrispondesse all’idea preconcetta occidentale su di essa, poi le ricerche insufficienti sulle fonti primarie e, principalmente, l’oblio del quadro di riferimento indigeno. La reincarnazione rispetta infatti le stesse regole che strutturano il Cosmo Gemellare. La cornice di significato è sempre la stessa: nella morte, gli spiriti seguono il principio della metà cosmica a cui appartenevano in vita: il Respiro proviene dal cielo (ovvero lo spazio), il Sangue proviene dalla terra. Purtroppo le storie sono state danneggiate dal filtro delle idee occidentali, la cui cornice è cristiana. Così, per i missionari il ritorno del Respiro corrispondeva alla rinascita di Cristo, mentre il ritorno del Sangue era interpretato come possessione satanica. In tempi più recenti, caduta la tendenza di interpretare tutti i fenomeni nell’ottica cristiana, gli antropologi hanno focalizzato l’attenzione sui riti funebri senza comprenderne la filosofia di riferimento.

Mann compie dunque un’opera di scavo nelle fonti per liberare la tradizione da tutti i preconcetti europei che vi si sono sovrapposti nel corso del tempo, correggendo gli errori e mostrandoci come gli spiriti del Sangue e del Respiro debbano essere compresi nei loro propri termini. Nello stesso modo in cui ci sono due spiriti e due direzioni di morte, esistono anche due punti di partenza per il ritorno, per ricongiungersi ai punti di origine iniziali, in cielo per il Respiro e sulla terra per il Sangue, il che vuol dire che esistono una reincarnazione del Sangue e una de Respiro. La pima avviene all’interno delle famiglie e gli spiriti del Sangue emergono dal sottosuolo, dove giacciono tra gli Antenati in attesa del proprio ritorno. Mentre questi ultimi sono propensi a tornare, gli spiriti del Respiro sono più difficili da far ridiscendere a terra e la loro reincarnazione richiede molta cooperazione. Tuttavia, spesso dietro la ridiscesa di uno spirito del Respiro, c’è l’urgenza di portare una conoscenza o un talento specifico alla comunità. Il fine è sempre collettivo e mai personale. Riferendosi alla visione indigena, Mann parla di “reincarnazione multipla simultanea” (pag. 300), includendo altresì tutti i luoghi nel tempo che i propri spiriti non solo hanno vissuto, ma stanno continuando a vivere. Ogni divisione temporale è un’illusione.

Concludendo, con quest’opera Barbara Alice Mann riesce a dimostrare come il Cosmo Gemellare costituisca il collante di ogni sfaccettatura della visione indigena, arrivando a descrivere le connessioni in due, quattro e in doppi di due e quattro in ogni aspetto della vita e della cosmogonia degli Indiani Americani. Nel fare questo, ha la capacità di trasportarci in un mondo dove tutto ciò che esiste è concepito in due metà complementari di pari importanza, insegnandoci tramite l’esempio e la disamina delle fonti a vedere queste due metà all’opera nella creazione.

Nell’ottica nativa, è compito di tutte le creature senzienti riconoscere e mantenere in modo fluido l’equilibrio cosmico che si manifesta nella compenetrazione delle metà gemellari, facendo attenzione che nessuna delle due prevalga sull’altra, al fine di raggiungere «la cosmica continuità definita dai Cherokee “la via dell’Armonia”» (pag.303). Sangue e Respiro, femminile e maschile, con tutte le innumerevoli declinazioni della loro gemellarità sono in una danza del cosmo alla quale ogni creatura partecipa: animali, piante, stelle, sole, luna, fiumi, costellazioni e l’essere umano tra le altre, ma non in posizione di supremazia quanto piuttosto di collaborazione con ogni altro aspetto del creato.

Arianna Drudi

Note biografiche sull’autrice

Arianna Drudi, laureata in “Discipline Etno-antropologiche” con specializzazione in Antropologia Medica ed Etnomedicina, è ricercatrice nell’ambito dello sciamanesimo e delle pratiche magico-religiose dei popoli nativi, particolarmente quelli dell’Amazzonia e del nord America. Il rito e gli stati non ordinari di coscienza sono uno dei suoi campi di studio, che si unisce alle ricerche riguardanti la musica e il canto rituale e l’uso delle piante maestre. A tal proposito, studia da vari anni i canti sacri delle popolazioni indigene dell’Amazzonia e del Nord America, i canti dedicati agli Orishas della tradizione afro-brasiliana e i canti devozionali mariani dell’area mediterranea. La mitologia, la simbologia e lo studio degli archetipi sono parte integrante delle ricerche condotte sulla figura della Grande Dea mediterranea, sulle culture matriarcalii e il paganesimo antico europeo. Nel contesto di numerosi viaggi in Perù, Colombia e Brasile è entrata in contatto con alcune popolazioni native presso le quali ha potuto soggiornare per apprendere le loro forme d’arte – dal canto alla lavorazione della ceramica, alla tessitura, alla pittura – e le loro forme di cura, l’uso delle erbe e dei rituali, la costruzione degli strumenti musicali e degli oggetti rituali. Le musiche, i canti, le danze, gli oggetti di arte e cultura legati alle popolazioni visitate sono al centro delle sue performance ed esposizioni. I suoi lavori artistici si ispirano al Sacro nelle sue numerose manifestazioni, alle simbologie e cosmogonie native e pagane, alle culture sciamaniche e alla figura archetipica della Grande Madre.

Per approfondire vi segnaliamo l’incontro online organizzato da l’associazione Le ali del brujo nel quale Luciana Percovich parlando di SPIRITI DEL SANGUE, SPIRITI DEL RESPIRO ci racconta la cultura degli Indiani d’America, cercando di allontanare la visione distorta che conosciamo, come risultato della colonizzazione occidentale.