L’ONU e la surrogazione di maternità: parole chiare e contrarie.
di Daniela Danna
Innanzitutto non chiamiamola GPA. La sigla fa tanto “tecnica”, ma la gravidanza non è una tecnica. Poi “GPA” significa “Gestazione per altri” (nemmeno, “gravidanza”, che avrebbe più carne e sangue), ma la gestazione si conclude con un parto e la maternità. Fondamentalmente si tratta di un istituto giuridico che stabilisce la finzione che alcune gravidanze-parti-neonati non siano “della donna incinta”. Va quindi chiamata con un termine giuridico: surrogazione di maternità. Dovrebbe essere pacifico che si tratta dell’apertura di un nuovo mercato (o della sua riapertura – i precedenti storici ci sono), mercato in cui i figli diventano una merce e le donne mere fattrici, operaie della gravidanza.
Invece la surrogazione di maternità è un tema che – sorprendentemente – ha diviso le donne che si dicono femministe e la sinistra che si rifà all’anticapitalismo, all’uguaglianza, all’autodifesa e alla difesa delle classi lavoratrici. Da parte di alcune e alcuni si cerca l’impossibile mediazione del salvifico “regolamento perfetto” che “tiene conto dei diritti di tutti”, dimenticando che i diritti di qualcuno sono necessariamente i doveri di qualcun altro: se la madre ha diritto a un compenso (quello che di solito è chiamato “rimborso spese”), avrà il dovere di consegnare sua figlia o figlio a chi l’ha retribuita.
Nel dibattito italiano è però finora mancato un tassello importante: risale a un anno fa la presa di posizione di un organo dell’ONU cui è mancato pochissimo all’aperta dichiarazione che la surrogazione di maternità “non s’ha da fare”, conclusione cui si può giungere comunque leggendo le ragioni e valutazioni della sua presa di posizione.
Si tratta del documento intitolato “Rapporto sulla vendita e lo sfruttamento sessuale dei bambini” che la Rapporteur speciale per il traffico di bambini all’Assemblea generale dell’ONU ha pubblicato il 18 gennaio 2018. È vero che già un altro documento ONU, la Convenzione per i diritti del fanciullo di Stoccolma del 1989 (insieme alla Convenzione sull’adozione internazionale dell’Aja, 1993) voleva garantire la continuità della vita familiare, cioè il diritto dell’infante a stare con la donna che lo ha partorito (cioè la madre), derogandovi solo con l’istituto giuridico dell’adozione, che rimedia a cause di forza maggiore e in nessun caso prevede passaggi di denaro alla madre. Nella Convenzione per i diritti del fanciullo, subito dopo il riconoscimento del suo diritto alla vita si stabiliva che: “Il fanciullo è registrato immediatamente al momento della sua nascita e da allora ha diritto a un nome, ad acquisire una cittadinanza e, nella misura del possibile, a conoscere i suoi genitori e a essere allevato da essi” (art. 7). Tuttavia l’ONU ha voluto indagare nello specifico cosa accade nella cosiddetta GPA, dato che la novità della sigla ha gettato un po’ di fumo negli occhi sulla sua sostanza.
La Rapporteur dell’ONU, Maud de Boer-Buquicchio, constata un gap nel diritto internazionale, in particolare nella protezione internazionale dei diritti umani, che concerne la surrogazione di maternità in quanto possibile vendita di bambini. Il documento quindi vuole chiarire quando la surrogazione è compravendita di bambini, un atto contrario ai diritti umani. Si riscontrano abusi sia nei contesti in cui la surrogazione è regolata (cioè istituita) sia in quelli in cui avviene illegalmente, riconoscendo che ci può essere vendita di bambini anche nella surrogazione “altruistica” (p. 12). Ovviamente, dichiara de Boer-Buquicchio, gli stati devono opporsi alla compravendita di infanti: proibirla e prevenirla. Anche se ciò “non fornisce risposte a tutti i dibattiti sulle leggi sulla surrogazione, certamente restringe l’arco degli approcci possibili” (p. 7).
Il Rapporto, con scandalo, riporta la presa di posizione dell’American Bar Association a favore del laissez-faire nei mercati nazionali e internazionali di bambini. L’ABA scrive: “È innegabile che commissionare bambini con la surrogacy per denaro rappresenta un mercato”, e che “i meccanismi di mercato hanno permesso alla surrogazione internazionale di operare in modo efficiente” (citazioni a p. 8). L’ABA, considerando la surrogazione un mercato, coerentemente rifiuta ogni valutazione sui committenti, controlli sui guadagni delle madri e di chi fornisce gameti, licenze e controlli per le agenzie. Rigetta anche l’applicazione alla surrogazione della Convenzione dell’Aja summenzionata, che vieta ogni pagamento a qualunque titolo alle famiglie degli adottandi.
Il Rapporto, con scandalo, riporta la presa di posizione dell’American Bar Association a favore del laissez-faire nei mercati nazionali e internazionali di bambini. Non si tratta di locali pubblici ma dell’associazione degli avvocati statunitensi. L’ABA scrive: “È innegabile che commissionare bambini con la surrogacy per denaro rappresenta un mercato”, e che “i meccanismi di mercato hanno permesso alla surrogazione internazionale di operare in modo efficiente” (citazioni a p. 8). L’ABA, considerando la surrogazione un mercato, coerentemente rifiuta ogni valutazione sui committenti, controlli suo guadagni delle madri e di chi fornisce gameti, licenze e controlli sulle agenzie che la organizzano. Rigetta anche nonché l’applicazione alla surrogazione della Convenzione dell’Aja summenzionata, che vieta ogni pagamento a qualunque titolo alle famiglie degli adottandi.
Un altro concetto importante che la Rapporteur esprime è questo: se la genitorialità legale è attribuita ai committenti prima ancora della nascita, ciò “può portare alla vendita dei bambini” (p. 10), cosa appunto vietata “a ogni scopo e in ogni forma” dalla Convenzione di Stoccolma. È quello che andiamo ripetendo da tempo noi contrarie all’introduzione in Italia di questo istituto giuridico: “Non si comprano e vendono i bambini nemmeno per le migliori cause, ovvero la fondazione di una famiglia in cui sono voluti e saranno presumibilmente amati”. Non si permette la compravendita della filiazione, e ne chiediamo l’abolizione dove esiste: per questo ci chiamiamo con il nome storicamente glorioso di “abolizioniste”.
Ne consegue anche che tutti i casi italiani noti, da Vendola alle Famiglie Arcobaleno, avvalendosi di contratti in cui pagavano le donne perché rinunciassero alla possibilità di riconoscere i propri figli alla nascita, hanno agito in modo che fa perlomeno sospettare alla prudente Rapporteur la compravendita di bambini, quindi la violazione di diritti umani di minori. Inoltre la Rapporteur afferma che la surrogazione “commerciale”, anche se regolata, costituisce vendita di bambini: “La surrogacy commerciale come è ora praticata costituisce la vendita di bambini che è definita nella legge internazionale sui diritti umani”, in quanto “la madre surrogata o una parte terza ricevono remunerazioni o qualunque altro corrispettivo in cambio del trasferimento del bambino” (p. 12). E, aggiunge, non basta che alcuni stati usino l’etichetta di “altruistica” per escludere che avvenga una commercializzazione. Questo mette le leggi della California e di molti altri stati Usa direttamente contro il diritto internazionale che protegge i diritti umani. Scrive la Rapporteur, “Gli intermediari che trasferiscono fisicamente o legalmente il bambino ai genitori intenzionali [cioè i committenti, nda] in cambio di una remunerazione o di qualunque altro corrispettivo sono colpevoli di compravendita di bambini” (p. 15). Non esiste nessun “diritto al figlio”, ribadisce chiaramente poco oltre (pp. 15-16).
L’ultimo punto fondamentale affermato dalla Rapporteur entra direttamente nel dibattito italiano attuale: “Gli stati non devono automaticamente riconoscere gli ‘ordini di genitorialità’ o certificati di nascita di stati stranieri nei casi di surrogazioni commerciali, ma devono controllare con cura i procedimenti eseguiti all’estero”.
Sono molti i punti fermi condivisibili che la Rapporteur dell’ONU sulla vendita di minori ha stabilito sulla surrogazione di maternità. Ma questi paletti che restringono – a ben vedere fino a farlo scomparire – lo spazio legale per la surrogazione di maternità non si apprendono dalla stampa italiana mainstream – li ho ascoltati durante un’iniziativa (in parte pubblica e in parte a porte chiuse) organizzata dall’International Social Service ad Amsterdam il 7-8 dicembre 2018.
L’iniziativa pubblica si intitolava Simposio sulla surrogacy e sui diritti dei bambini, presenti esponenti di vari schieramenti pro o contro la surrogazione di maternità. David Smolin ha parlato, poi la tragica testimonianza del giudice australiano di diritto di famiglia John Pascoe sui numerosi abusi sui minori “acquisiti” con la surrogacy (specialmente da paesi asiatici) che ha incontrato nella sua pratica professionale. Toccante la testimonianza di Stephanie Raeymaekers, presidente dell’associazione europea dei figli di “donatori” anonimi (http://donoroffspring.eu/2), un movimento che non ha connotazioni religiose, ma raccoglie i figli delle tecniche di procreazione assistita che si sentono lesi nel loro diritto a conoscere i propri genitori dalle leggi che permettono le anonime “donazioni”, in realtà compravendite, di seme maschile e ovuli femminili. Poi avvocati di diritto privato internazionale hanno invece cavillato che la surrogazione non è commerciale se “il pagamento non è contestuale” alla cessione dell’infante – la classica foglia di fico da leguleio, immediatamente smascherata da interventi dal pubblico. Nonostante tutto ciò, la commissione chiamata dall’International Social Service, sta proseguendo – a porte chiuse – la sua illusoria ricerca del modo giusto di effettuare una surrogazione di maternità. Ma è un lavoro inutile. Il problema è che non è possibile proteggere i bambini “nella maternità surrogata”, poiché questa istituzione giuridica è progettata proprio per privarli del loro diritto umano fondamentale della continuità della loro vita familiare, cioè il contatto con la madre. Tra l’altro, nei documenti di questa commissione che lavora da anni, sorprendentemente manca la definizione di “surrogacy”. Se si capisse innanzitutto che si tratta di una finzione giuridica, le conseguenze sarebbero altrettanto chiare: non la si può introdurre senza limitare il diritto delle donne a riconoscere sempre la propria prole una volta nata.
Dopo questo documento ONU, la conclusione sull’inutilità della ricerca di regole che rendano giusta la surrogazione di maternità dovrebbe essere ormai palese anche nel dibattito italiano, in cui – come detto – una parte della sinistra e una parte delle femministe ancora credono che si possa arrivare a una legge che salvi la capra della maternità responsabile insieme ai cavoli del preteso “diritto al figlio” rivendicato da associazioni Lgbt. Non è possibile farlo: bisogna schierarsi a favore delle donne e della libertà della nostra riproduzione, come io ed altre compagne abbiamo fatto da tempo.
1 David Smolin: “The One Hundred Thousand Dollar Baby: The Ideological Roots of a New American Export”, Cumberland Law Review 2019 https://works.bepress.com/david_smolin/20/?mc_cid=ee63eae6be&mc_eid=14a339b830
2 Non presente in Italia, qui una sua intervista in cui parla anche dei problemi con suo padre non biologico: https://www.vanityfair.it/news/mondo/15/11/20/stephanie-figlia-provetta
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