Il ventre sacro e i fucili: come distruggere il potere femminile in pochi (ma significativi) passaggi.

Madame Amala, membro della Ivory Association (Otu Odu), con i suoi nipotini (ph. H.K. Hnederson, Onitsha, Nigeria 1961)

Come osservato nell’articolo precedente, Igbo e matriarcato: una storia africana, i colonialisti inglesi arrivati in Nigeria forti di una presunta superiorità culturale, etica e morale, non solo non seppero riconoscere le peculiarità degli scambi di genere che portavano le donne ad assumere ruoli maschili e viceversa[1], ma fecero il possibile per eliminare le cariche politiche ed economiche femminili ed i relativi ruoli pubblici. Di base, nella società Igbo i/le leader erano persone che, a prescindere da sesso e genere, avevano grande carisma, capacità oratorie e auspicabilmente una certa ricchezza. Le donne, unite in gruppi divisi nelle due macrocategorie, le associazioni delle figlie e quelle delle mogli, avevano un alto concetto della femminilità che ritenevano sacra, eterna ed invincibile grazie al potere creativo di generare.

Santuario della divinità femminile Eke presso il mercato con la statua di una divinità minore a dimensione umana. L’immagine è stata ripresa nel 1987 in occasione del festival dedicato all’omonoma Dea, il cui tempio è stato restaurato (fonte e foto: Willis, 1989)

Il primo antropologo a studiare questo gruppo etnico, su commissione del governo britannico, è Northcote Whitridge Thomas incaricato di descrivere e analizzare gli aspetti politici, economici e sociali che potessero tornare utili ai colonizzatori. Il suo “report” scritto negli anni 1913-14, malgrado le ovvie posizioni eurocentriche e maschiliste, è una preziosa fonte che riporta i cambi di genere che attraverso specifici rituali permettevano alle donne di assumere il genere maschile e sposare altre donne di cui diventavano il marito. E tra le altre cose, riporta anche la pratica, in caso di presunta sterilità del marito di una coppia uomo-donna, di incoraggiare la moglie a cercare amanti che le permettessero di generare figli.[2] L’antropologo, malgrado le direttive del governo, fu molto incuriosito dagli aspetti peculiari di questa società anche in campo artistico, tanto che ne riportò alcuni motivi rituali sia attraverso disegni che foto di scarificazioni. Ma da dove venivano e cosa significavano questi simboli?

L’antropologo N.W. Thomas, fotografato durante la sua ricerca nel sudest Nigeria (fonte e foto)

L’arte Uli e la Dea della terra

L’Uli è una forma di arte tradizionale igbo che utilizza pigmenti naturali e presenta decorazioni schematiche e geometriche.[3] Poteva essere applicata sia su abitazioni e templi che sul corpo delle persone. Era praticata esclusivamente dalle donne che si racconta l’avessero ricevuta in dono dalla Dea della terra Ala. Secondo la mitologia igbo, questa divinità, oltre ad aver donato questa abilità per premiare il potere creativo delle donne, teneva nel suo grembo gli antenati defunti. Una simbologia legata alla madre-terra fortissima e potente trasmessa alle donne e i cui motivi erano tramandati per via femminile.[4] Nella società igbo, alle donne veniva riconosciuto il potere sacro di creare la vita e di custodire le anime degli antenati nel grembo della divinità che le rappresentava. Non stupisce quindi la loro convinzione di invincibilità e potere quasi sovrannaturale del femminile che le spinse a dichiarare guerra all’esercito inglese, schierandosi con costumi e bastoni tradizionali contro uomini armati di fucili.[5]

Da sinistra: disegno che rappresenta una ragazza e il motivo rituale uli e scarificazioni rituali mbubu; a destra il primo piano del ventre di una ragazza con le scarificazioni. Sia il disegno che la foto sono stati fatti dall’antropologo inglese Northcote W. Thomas nel 1911 (fonte)

Il “contributo” ecclesiastico

Oltre ai colonialisti armati di fucile, bisogna ricordare il contributo che ebbero i missionari cristiani che, armati della loro fede, tentarono di ridimensionare l’abnorme ed inconsueto ruolo delle donne igbo. Nella fattispecie condannarono i ruoli sacerdotali delle donne e rispettive divinità che ovviamente venivano percepite come aberrazioni pagane. E in effetti i religiosi, dopo il 1930, quando parallelamente ai coloni sentirono l’esigenza di costruire delle scuole, stabilirono come requisito per frequentarle la fede cristiana e la rinuncia alle pratiche sacre tradizionali femminili. Inoltre, sapendo che per intaccare alla base il potere femminile occorreva agire sulla sfera economica, condannarono i mikiri che, come abbiamo visto nel precedente articolo, rappresentavano l’istituzione che garantiva la comunicazione tra donne e ne perpetuava il potere economico e politico.

Il sistema scolastico: donne casalinghe e uomini d’affari

Parallelamente, anche il sistema scolastico britannico era strutturato per cucire su uomini e donne ruoli di genere mutuati direttamente dalla madrepatria: mentre le donne avrebbero dovuto studiare discipline che riguardano le faccende domestiche ed affini, agli uomini era garantito lo studio di economia, politica e difesa militare.[6] Come conseguenza, sia durante la colonizzazione britannica che nel periodo successivo (dall’indipendenza del 1960 in poi), moltissime donne, non riconoscendosi nel sistema educativo, abbandonarono la scuola, malgrado i maldestri tentativi del governo nazionale nigeriano di porre rimedio alla situazione.

A sinistra: Omu Nwagboka di Onitsha? (Attribuzione incerta). Foto di Henry Crosse, fotografo della Royal Niger Company), circa 1886–1895. Museo di Archeologia e Antropologia di Cambridge

Certamente affermare che questi cambiamenti siano avvenuti solo a causa di un intervento esterno (Inglesi e Chiesa, in questo caso) che ha minato il potere delle donne, mentre le dinamiche di genere venivano sovvertite, sarebbe un discorso ingenuo e semplicistico: sono tanti i fattori che hanno contribuito ai cambiamenti, non ultimo, il vantaggio per gli uomini igbo che hanno via via occupato le posizioni femminili. La famigerata pratica del “divide et impera” che sembra funzionare ad ogni latitudine e periodo storico. Poco importa se alla fine, è stata la comunità intera a risentirne.

L’economia e potere pubblico

Un settore in cui le donne hanno perso il primato (e con esso l’indipendenza economica), è certamente il commercio che nel periodo precoloniale era considerato dagli Igbo come un’attività prevalentemente femminile, fatto culturalmente inaccettabile per i Britannici che nel periodo vittoriano amavano tenere le donne a casa e possibilmente strette in abiti soffocanti.

Le “impalcature” degli abiti femminili di epoca vittoriana (fonte)

In generale, un punto-chiave di grande divergenza tra il sistema inglese e quello igbo risiedeva nel valore e potere che questi ultimi assegnavano al gruppo, alle decisioni prese collegialmente con la guida della leadership. I coloni tentarono di cancellare anche la validità di pratiche come il “sitting on a man” definito come uso illegale di forza e come tale sanzionabile.

Possiamo solo immaginare lo choc culturale di osservare una popolazione “primitiva” in cui le donne occupavano posizioni di potere, che le rendevano economicamente indipendenti. Per dare un assaggio della loro rilevanza, basti pensare che fu l’omu[7] di Onitsha chiamata Nwagboka a firmare il trattato con i colonizzatori nel 1884.

Come finisce la storia?

Secondo Nwanesi (2006) e Adu (2008) a causa di questo abbandono scolastico (a mio parere comprensibile), unito alle barriere di genere che spesso accompagnano il lavoro femminile, le compagnie internazionali che sopraggiunsero alla partenza dei Britannici, si guardarono bene dall’assumere donne, “ovviamente” preferendo la controparte maschile. Questa esclusione portò ad un impoverimento della parte femminile della popolazione alla quale non venivano concessi neppure prestiti bancari. Insomma, le donne entrarono in un circolo vizioso che piano piano le relegò verso ruoli subordinati e di poca rilevanza sociale. Il tutto peggiorato da un trentennio di regime militare che non ebbe certo riguardi nei confronti delle donne che comunque cercarono strenuamente di difendersi continuando la tradizione dell’associazionismo del periodo precoloniale che aveva però perso le sue solide basi economiche, sociali e simboliche.[8] Anche la pratica del “sitting on a man” in qualche modo continuò: per esempio nei casi di violenza domestica le donne in gruppo circondavano l’abitazione in cui si trovava il marito cantando canzoni ingiuriose (a sfondo sessuale) nei suoi confronti dalla mattina al tramonto.

La statua che celebra l’Omu Nwagboka (ph. Onyinyeonuoha)

Come fa notare Nwanesi (2006), con l’introduzione del micro-credito nel 1985, la situazione femminile è migliorata ma i problemi generati dal colonialismo e tutto ciò che si è portato dietro, sistema patriarcale, monoteismo religioso e sessismo, hanno inferto un duro colpo alla posizione delle donne igbo.

Arianna Carta
dottoranda in Antropologia culturale presso l’Università del Litorale di Capodistria

[1] Arianna Carta – Il genere tra gli Igbo – 2002.
[2] Diverse fonti citano la libertà sessuale delle donne sia prima del matrimonio, periodo in cui potevano avere rapporti sessuali con chi desideravano, sia durante le “trattative matrimoniali” che potevano durare anche tre anni. Nel frattempo, la donna poteva avere rapporti con altri uomini (Amadiume 1982; R. N. Henderson 1972; Thomas 1914).
[3] Per un approfondimento su tatuaggi e scarificazioni legati al sacro femminile, si consiglia la lettura di Zucca (2015).
[4] Per un approfondimento sulle mitologie di creazione legate alle divinità femminili, si consiglia la lettura di Percovich (2009).
[5] Si rimanda all’articolo “Igbo e matriarcato: una storia africana
[6] Nwanesi, (2006); Egbo (2000).
[7] Per la figura dell’omu, si rimanda all’articolo “Igbo e matriarcato: una storia africana
[8] Okonkwo (2009)

Bibliografia
Adu Oluwabusayo – The Missing Link: Women’s Representation and Participation in Nigeria’s Electoral Politics and their Effects on Nigeria’s Development – Phd. University of Bryn Mawr – 2008;

Egbo Benedicta – Gender, literacy, and life chances in Sub-Saharan Africa – Vol. 16 – Multilingual Matters – 2000;

Henderson Helen Kreider – “Onitsha Women: The Traditional Context for Political Power” – in Annals of the New York Academy of Sciences – 810.1: 215-243 – 1997;

Henderson Richard N. – The King in Every Man: Evolutionary Trends in Onisha Igbo Society – New Haven – London – Yale University Press – 1972;

Nwanesi Peter Karubi – Development, micro-credit and women’s empowerment: a case study of market and rural women in Southern Nigeria – PhD University of Canterbury – 2006;

Okonkwo Anthony – The Evolution of Gender Relations in Igbo Nation and the Discourse of Cultural Imperialism – Tesi di Laurea –2010;

Percovich Luciana – Colei che dà la vita, colei che dà la forma – Roma – Venexia – 2009;

Thomas Northcote Whitridge – Anthropological Report on the Ibo-speaking Peoples of Nigeria: Law and custom of the Ibo of the Asaba district, S. Nigeria – Harrison and Sons – 1914;

Willis Liz – “Uli painting and the Igbo world view” – in African Arts – 23.1: 62-67 – 1989;

Zucca Michela – I tatuaggi della Dea – Roma – Venexia – 2015.