Le società matriarcali del passato e la nascita del patriarcato – Heide Goettner-Abendroth

Le società matriarcali del passato e la nascita del patriarcato è il titolo e il tema dell’ultimo libro di Heide Goettner-Abendroth ed è stato appena tradotto in italiano da Luisa Vicinelli e Nicoletta Cocchi per la casa editrice Mimesis.

Traccia una storia approfondita delle trasformazioni delle forme di vita dell’umanità dal Paleolitico all’Età del ferro e segna sicuramente un passo fondamentale nel percorso di approccio scientifico al matriarcato che, dalla fine degli anni 70, ha visto impegnata l’autrice con i suoi Moderni Studi Matriarcali al fine di uscire da quella aleatorietà per cui ciascuno o ciascuna può intendere in modo diverso quel fenomeno ancora semi sconosciuto che è il matriarcato.

La ricerca delle strutture fondanti delle società matriarcali è il lavoro nuovo e significativo svolto dai Moderni Studi Matriarcali di Heide Goettner-Abendroth: un lavoro in continua espansione e approfondimento.
I libri di questa autrice tradotti in italiano sono Le società matriarcali. Studi sulle culture indigene nel mondo (2013), Società di pace patriarcati del passato, presente e futuro (a cura di, 2018), Madri di saggezza. La filosofia e la politica degli studi matriarcali moderni (2020).

Questo ultimo testo è un lavoro interdisciplinare che mira a ridefinire l’area di ricerca degli studi sul matriarcato per “creare una rappresentazione adeguata della forma sociale matriarcale in tutta la sua vastità storica e geografica” e contemporaneamente a far emergere una nuova visione della storia culturale umana nel suo complesso da cui è ancora largamente assente la presenza delle donne.
Una visione che ci aiuti innanzi tutto a uscire dall’idea che la vita dell’umanità, nelle epoche precedenti a quella che definiamo “storia”, sia stata una realtà priva di una cultura significativa cioè priva di un pensiero astratto, di un senso del sacro, di idee condivise, di una identità sociale peculiare, di abilità creative.

Si tratta di una raccolta di dati davvero importante sull’Asia occidentale e sull’Europa in cerca di risposte a domande fondamentali che molte di noi sicuramente si sono fatte nei propri percorsi di consapevolezza femminile e di critica al patriarcato e ancora più nel proprio ambito di studi e ricerca sul femminile prima del patriarcato.
Questo libro è una fonte di sguardi innovativi quanto mai necessari in un momento di così grande confusione e frammentarietà di visioni come quello che stiamo vivendo.

Heide Goettner-Abendroth dagli anni ’70 conduce una ricerca per dare basi certe agli studi sul matriarcato a cominciare dalla necessità di chiarire il concetto che “Le società matriarcali non sono l’immagine speculare di quelle patriarcali”.
Il significato della parola matriarcato è “in principio le madri” – in greco la parola archē significa “dominio” , come nella parola patriarcato ma significa anche “inizio, origine”.

Altre definizioni di matriarcato come “culto della madre” sono secondo Heide Goettner-Abendrothun un “orpello del patriarcato” intendendo che negli studi fatti dalla cultura patriarcale le culture matriarcali sono intese come società in cui tutto ruota intorno alle donne o alle madri, ma di cui non vengono minimamente individuate le complesse forme di relazione che in queste società intercorrono fra donne e uomini, anziani e giovani, sorelle e fratelli, fra essere umani, natura, animali, vegetazione, cosmo, vita e morte; relazioni che ci danno una rappresentazione molto più articolata e peculiare delle società matriarcali, sia di quelle ancora esistenti, sia di quelle della Storia Antica, aventi una forma sociale peculiare con istituzioni economiche, politiche, culturali proprie e una diversa visione del mondo.

L’introduzione del libro si intitola Lo sviluppo degli studi matriarcali moderni e la loro importanza per la storia delle culture : significa che il tema fondamentale del lavoro di Heide Goettner-Abendroth è la riscrittura, a partire dalla ridefinizione di matriarcato, della storia dell’umanità in modo non parziale, cioè senza esclusione delle donne.

“… se vogliamo evitare il pericolo di sostituire la conoscenza con la fantasia …dobbiamo necessariamente rivolgerci a queste società (ndr matriarcali) ancora esistenti e iniziare dalla ricerca etnologica e antropologica.” Pur mettendoci sull’avviso di non lasciarsi sviare da pregiudizi colonialisti e sessisti da cui sono gravate sia l’etnologia che l’antropologia, pregiudizi che hanno sovente stravolto il significato delle testimonianze, dei reperti, dei racconti.
Un’altra delle sue fonti di lettura delle società antiche è naturalmente l’archeologia: sono proprio i reperti e i risultati archeologici che vengono “fatti parlare” e ad essere considerati “l’unica base solida su cui la storia culturale del matriarcato può essere recuperata”.

Le scienze che si sono occupate delle tante forme di civiltà che gli esseri umani hanno creato in milioni di anni, non hanno proprio visto, se non parzialmente e superficialmente, i valori fondanti delle società matriarcali e il loro essere all’origine della storia dell’umanità:
le scienze accademiche per lo più danno per scontato che l’unica forma di società sia sempre stato il patriarcato o quantomeno forme in cui è il maschio protagonista delle vicende della vita e sulla base di questo pregiudizio anche i segni che, oggi alla luce di più precise forme di indagine, di cui molte ad opera di studiose donne, possiamo sicuramente definire matriarcali sono letti in forma distorta come proiezioni di valori e paradigmi patriarcali.

Nel primo capitolo del libro, dedicato ad alcune riflessioni sulla storia antica, è trattato approfonditamente uno dei pregiudizi più radicati sia nell’archeologia, che nell’etologia, e nell’antropologia e anche nel senso comune, “la guerra infinita”: una teoria per la quale non sarebbe mai esistita un’epoca senza violenza e senza guerre e la pace non sarebbe che una momentanea “assenza di guerra”.
L’autrice fa una interessante disanima di alcune delle teorie che hanno cercato di accreditare questa tesi.

Per arrivare a queste conclusioni, studiosi come Lawrence Keeley, archeologo e teorico della guerra, tendono a interpretare le testimonianze materiali della storia degli inizi dell’umanità come segni di belligeranza invece che, per esempio, se si tratta di fossati o mura, come sistemi di difesa da animali o nel caso di archi e frecce come armi offensive anziché armi per la caccia.
Harry H. Turney-High distingue invece fra “guerra primitiva” e “guerra civilizzata” usando criteri che definirebbero meglio le guerre primitive come
“faide”: i combattenti come volontari, le campagne militari molto brevi, le armi e le fortificazioni limitate, le autorità di comando deboli sono tutti elementi che caratterizzano le faide presso le popolazioni indigene e che sono sovente addirittura combattimenti per procura tra capi di schieramenti diversi ed hanno lo scopo di affrontare dispute personali o di gruppo causando il minor numero possibile di vittime. Non sono dunque la testimonianza di una propensione umana alla guerra che non conosce alternative ma semmai forme di risoluzione di conflitti personali o sociali a cui sicuramente qualunque gruppo piccolo o grande di esseri umani va incontro.

A sostegno della propria tesi l’autrice si avvale del lavoro della docente di archeologia Heide Peter-Roecher che ribalta il significato di certi ritrovamenti che avevano fatto dire agli studiosi della “guerra infinita” che fossero addirittura la prova che le nostre antenate e i nostri antenati fossero dei cannibali e che nell’età della pietra si perpetuassero massacri o sacrifici di massa.
Un esempio per tutti: secondo Peter-Roecher il caso di Kaprina nel nord della Croazia in cui furono ritrovati i resti di 70 uomini di Neanderthal le cui ossa mostrano tagli e raschiature può essere interpretato non come la testimonianza di un conflitto ma di rituali funebri molto comuni nel Paleolitico, definiti “sepolture secondarie”, secondo cui le ossa dei defunti venivano riesumate, ripulite e raccolte in un luogo sacro per un secondo interramento.

Anche solo da questi pochi cenni tratti dal contenuto del libro è evidente che la prospettiva storica con cui ancora le scienze accademiche accreditate raccontano la storia dell’umanità viene messa fortemente in discussione dal lavoro di Heide Goettner-Abendroth proprio grazie ad un approccio interdisciplinare che chiama in causa antropologia, etnologia e archeologia e con un minuzioso confronto fra le risorse di ciascuna scienza.

E così il Paleolitico non è più un’era di trogloditi che sopravvivono con l’uso della clava e la forza bruta dei maschi cacciatori ma un’epoca con
“un’economia di raccolta e di caccia” nelle mani sia degli uomini che delle donne. Poiché Il 60/70% della dieta alimentare era costituita da prodotti vegetali : facendo un paragone con le società di raccolta ancora esistenti, ne deduce che erano le donne le conoscitrici delle erbe utili all’alimentazione e dunque l’economia dei primi gruppi di esseri umani ruotava intorno alla loro attività.

Quando racconta le società del Paleolitico la studiosa lo fa essendosi rivolta agli studi etnologici dei gruppi di popolazioni che ancora praticano economie di raccolte e caccia e circoscrive l’area di riferimento all’Africa dove si trovano i popoli più antichi.
Questi raffronti etnologici fanno pensare che fossero le donne a curare il fuoco negli accampamenti e nelle grotte e si occupassero di conciare le pelli degli animali sia per l’abbigliamento che per costruire ripari, e una economia di sussistenza e caccia aveva più bisogno di mansioni di uguale rilevanza piuttosto che di predominio di una genere sull’altro. Ne deduce che “L’idea che tutto ciò che è degno di nota nel Paleolitico derivi unicamente dalla caccia degli uomini è una pura velleità maschile.”

Anche la forma sociale del Paleolitico scaturisce dall’esperienza delle donne : “La forma sociale primeva in tutte le società è costituito dalla madre e dal bambino.” Ed è questo nucleo a fornire un modello “di cura e di socializzazione”. Non solo, è con l’ intelligenza relazionale che “si è sviluppata la prima forma di linguaggio… Come ha riscontrato la paleo-linguistica, le prime parole base con tutte le loro varianti in ogni lingua nominano alcune proprietà femminili sia direttamente (donna, vulva, nascita) che indirettamente (latte, bambino, gruppi di paretela)”

La figura femminile è centrale anche nelle visioni religiose del Paleolitico :
“l’idea che la donna come la madre terra creasse da se stessa la nuova vita” e fosse la custode della rinascita è il concetto centrale della religiosità del Paleolitico. Le numerose statuette ritrovate nei siti paleolitici raffigurano prevalentemente donne e l’immagine della vulva è quasi sicuramente il più antico segno attraverso cui gli esseri umani hanno espresso l’idea non solo della fertilità ma della rigenerazione, quindi di un modo di sentire e vivere l’esistenza.

Le testimonianze archeologiche ci dicono di una “capacità di un pensiero astratto” espresso attraverso l’uso di segni simbolici che si ritrovano nei culti funerari, nell’uso del color ocra a rappresentare l’energia vitale del sangue e quindi la speranza di una rinascita, ma anche di una capacità di osservazione e deduzione testimoniate dalla connessione fra il trascorrere del tempo e le fasi solari che – insieme all’osservazione della connessione fra la biologia generativa della donna e le fasi lunari – danno vita ai primi calendari dell’umanità e ad un istintivo senso della ciclicità della vita.

Sono testimonianze di un periodo lunghissimo di vita umana sulla terra in cui non c’è segno né di guerre e né di diseguaglianze, né fra i sessi né fra generazioni, e in cui la pace era fondata su valori condivisi da tutti: i valori materni. Nulla di più lontano dalle stereotipate immagini con cui ancora è illustrata la preistoria!
Dal punto di vista degli studi matriarcali quelle Paleolitiche sono società
“incentrate sulla madre” con una visione legata alla rinascita per cui si credeva che ogni nascita fosse un ritorno alla vita, la nuova nascita di coloro che erano morti e che la donna come madre terra, partorendo, riportasse i morti in vita, ma ancora in esse non sono presenti tutte quelle condizioni necessarie per poterle definire strutturalmente matriarcali.

E’ nel Neolitico che si delineano tutte gli aspetti per l’affermarsi delle società matriarcali : economico, sociale, politico e culturale.
E’ il momento in cui la linea materna diventa “un principio di ordine sociale” e questo avviene “quando grandi gruppi di esseri umani iniziarono a formare insediamenti permanenti” e si organizzarono nella forma dei clan.
La storia del Neolitico ci viene minuziosamente raccontata come un’epoca di grandi trasformazioni ma anche un’epoca in cui le nuove società complesse non sono società con organizzazioni verticistiche in cui assume il ruolo fondamentale il cosiddetto “grand’uomo”, come vorrebbe la ricerca accademica, ma modelli di società basati sulla cooperazione e in cui non ci sono tracce di disuguaglianza ma piuttosto una equa ripartizione dei beni materiali.

Sono i nuovi studi archeologici sui reperti architettonici, sulle usanze funerarie, sulla diversificazione delle mansioni lavorative fra uomini e donne, sull’assenza di prove di conflitti e aggressioni a comprovarne le caratteristiche di società organizzate in modo orizzontale e non gerarchico in cui regnava un regime di “uguaglianza complementare” .
Un esempio interessante dei valori su cui si fondava la vita comunitaria di quel periodo è il fenomeno delle architetture monumentali neolitiche ritrovate in diverse località dell’Asia occidentale – Gerico, Gobekli Tepe, Cayonu – e che sarebbero la testimonianza di una risposta “religiosa” ad un grande senso di precarietà della vita.

“Quale motivazione profonda avrebbe spinto la gente a investire le proprie energie in progetti edilizi che richiedevano così tanti sforzi?” si chiede la studiosa. La risposta va cercata nella necessità di promuovere la coesione sociale. Tali progetti esigevano cooperazione e non competizione e rafforzavano enormemente il sistema di reciprocità e di integrazione.
“La pianificazione e organizzazione della forza lavoro per queste imprese sono il riflesso di idee sociali e religiose condivise da tutta la popolazione. Hanno aiutato a formare l’identità della società, in modo non gerarchico ma orizzontale”.
Anche questi monumenti raccontano della grande e civile “capacità auto-organizzativa delle società egualitarie” che nulla ha a che spartire con la necessità di gerarchie, che viene per lo più attribuita da una certa archeologia accademica, alle società complesse, come già erano quelle del Neolitico.

Mano a mano che si progredisce nella lettura del testo, un testo impegnativo ma con il fascino di un racconto che affonda lo sguardo in profondità, è sempre più chiaro che la storia antica dell’umanità è una storia di visioni del mondo, di ricerca di senso del mondo circostante e non una crescita lineare di abilità e tecnologie, e soprattutto non un percorso lineare da un primitivo mondo di rozzezza verso un mondo “civilizzato” !
Per un lunghissimo periodo la storia antica dell’umanità è il susseguirsi di
“costruzioni sociali consapevoli” e non solo di “formazioni puramente istintive”. Ma è anche un intreccio di concomitanze e di eventi che si intrecciano e che modificano il contesto entro cui sarà poi possibile il passaggio dalle forme matriarcali a quelle patriarcali.

Un passaggio che Heide Goettner-Abendroth descrive minuziosamente in tutti i suoi aspetti e le sue fasi. Ponendo l’accento proprio sulla diversità e molteplicità dei fattori che portarono alla transizione; specificando che furono “due percorsi culturali del tutto difformi, uno nelle Steppe e l’altro in Mesopotamia, quelli che portarono all’ascesa del patriarcato” nelle aree di ricerca prese in esame da questo testo.

Ne risulta un quadro molto complesso in cui sono delineate con precisione le cause, gli sviluppi e le resistenze “dal basso” messe in atto dalle donne, particolarmente dalle Amazzoni. Un racconto da cui emergono con chiarezza tutti i passaggi attraverso cui – nel corso di millenni – società fondamentalmente pacifiche, in cui erano potute nascere e prosperare senza intoppi autentiche civiltà raffinate ed egualitarie, diventarono società in cui le disuguaglianze saranno sempre più profonde, i conflitti sempre più devastanti, la violenza sarà considerata eroica, e il patriarcato si strutturerà nelle sue forme più perniciose fino alla “crescente brutalità dell’età del ferro”.

Nella ricostruzione di Heide Goettner-Abendroth la realtà che diede inizio al processo di patriarcalizzazione delle società umane furono le fluttuazioni climatiche a partire dal VI millennio. Le ricerche delle scienze naturali forniscono al riguardo preziose informazioni.
Un repentino inaridimento della steppa euroasiatica, dove erano nate culture neolitiche influenzate dalle civiltà matriarcali meridionali e occidentali, costrinse le comunità che erano riuscite a sopravvivere ai cambiamenti climatici, a modificare le condizioni di vita e le abitudini alimentari e abitative: la fiorente agricoltura dovette essere sostituita, come fonte principale di sostentamento, dalla caccia e dall’allevamento.
Poi ci fu l’addomesticamento del cavallo che rese più facile la gestione di mandrie che divennero sempre più grandi.
Poi si resero necessari spostamenti su larga scala in cerca di nuovi pascoli e i pastori divennero pastori-guerrieri seminomadi che si spostavano su carri trainati da cavalli e che con il tempo divennero anche carri da guerra.
E in queste nuove condizioni di vita le donne, che si occupavano di agricoltura e di lavorazioni artigianali, fra cui la ceramica, ed erano state il cuore di sistemi sociali egualitari, divennero sempre più dipendenti da un’organizzazione economica che necessitava prevalentemente di una forza lavoro maschile.

Come è successo? Si chiede Heide Goettner-Abendroth. L’ipotesi è che
“Lungi dall’essere uno sviluppo intenzionale, si sia trattato piuttosto del bisogno di far fronte a problemi sempre più grandi…Un uomo particolarmente ricco di inventiva potrebbe aver trovato le soluzioni giuste…Non è importante sapere nel dettaglio come ciò sia avvenuto…quest’uomo che salvava dall’emergenza acquisiva un enorme prestigio” e dava inizio alla prima gerarchizzazione della società sotto la guida maschile. E questo fu solo l’inizio!
Le dispute per accaparrarsi nuovi pascoli si intensificarono. I pastori divennero pastori guerrieri. I capi tribù si circondarono di seguaci armati che controllavano il territorio e quindi le loro proprietà private. Proprietà privata che fu “poi usata per consolidare il dominio.”

Heide Goettner-Abendroth sposa la tesi che “la causa della nascita del dominio non sia stata la proprietà privata – anche perché bisognerebbe prima spiegare come questa possa nascere all’interno di un’economia comunitaria! – … le prime coercizioni sono scaturite da conflitti armati permanenti.” Consolidato il dominio il passo successivo fu il passaggio dal possesso delle mandrie al possesso delle donne. L’uomo capo doveva assicurarsi un erede a cui lasciare le proprietà e ci voleva dunque una generatrice che facesse figli solo per lui.
Ma come si passò da una tradizione matriarcale di libertà sessuale delle donne all’istituzione del matrimonio monogamico, con tanto di verginità e fedeltà assoluta della donna nei confronti dell’uomo ?

Probabilmente un capo facoltoso offriva a un clan più povero un certo numero di capi di bestiame in cambio di una moglie portando al clan anche una posizione sociale di prestigio: nasceva il “prezzo della sposa”. Per questa usanza indoeuropea ci sono dei riferimenti linguistici: la parola che la designa “deriva da ‘wedh’ (wedding in inglese matrimonio) che vuol dire condurre il bestiame” (citazione che Heide Goettner-Abendroth fa da La civiltà della Dea di Gimbutas) per poi arrivare alla “dote” che accompagnava la sposa e che i meno abbienti offrivano a capi potenti per guadagnare favori o alleanze.

Nella steppa si susseguirono nel IV e nel III millennio altri due periodi di cambiamenti climatici e altrettante ondate di invasioni verso ovest con “conseguenze devastanti”, violenza diffusa, assoggettamento delle popolazioni autoctone, nessuna “integrazione culturale ma rigido divisione sociale in due classi”, i dominatori e i dominati : l’ affermarsi del pensiero e dell’ideologia patriarcale.
“Le splendide ed evolute culture del passato furono soppiantate da una società patriarcale di allevatori di bestiame e cavalli che era totalmente all’oscuro delle nuove conoscenze dell’agricoltura. La loro ceramica era grezza, grigia e primitiva” e ancora una volta sono le sepolture a raccontare la vita e l’etica di una società : “Le sepolture erano riservate soltanto agli uomini e all’interno dei tumuli dei nuovi signori, chiamati kurgan, “il corredo funerario conteneva arsenali di armi e persino carri, chiaro sintomo di un’enfasi esagerata verso il singolo individuo, il grand’uomo.”

Solo la terza invasione rese l’Europa prevalentemente indoeuropea e patriarcale ma il risultato fu una combinazione in cui le tracce del matriarcato erano e sono, anche se in piccola parte, ancora ben visibili anche se con aspetti molto diversi fra Europa settentrionale ed Europa meridionale. Una visibilità che è ancora tutta da riaffermare e riconsiderare.

La teoria delle migrazioni e delle trasformazioni di civiltà che esse ingenerarono, come risulta dal prezioso lavoro archeologico di Maria Gimbutas, è stato per molto tempo – e ancora lo è in una certa misura – fortemente negata dall’archeologia accademica che addirittura continua ad attribuire ad invasioni pacifiche di Indoeuropei l’intera cultura del Neolitico europeo!
I recenti risultati delle analisi del DNA hanno chiarito che le deduzioni della Gimbutas erano esatte.

Ci furono due differenti flussi migratori verso l’Europa: una prima ondata non indoeuropea, in epoca neolitica, era formata da clan formati sia da uomini che da donne e bambini e fu quindi pacifica. Con il secondo e il terzo flusso indoeuropeo, nell’antica età del bronzo, arrivarono invece esclusivamente uomini con nuove tecnologie e sempre le analisi del DNA ci dicono che in concomitanza con queste due invasioni “gli uomini delle popolazioni native sono quasi scomparsi dalle rilevazioni genetiche”: gli uomini massacrati e le donne evidentemente assimilate con la forza e la violenza.

Heide Goettner-Abendroth mette bene in risalto come il concetto e la nozione di “società matriarcali” devono essere evitati a tutti i costi, pena lo sconvolgimento della visione patriarcale del mondo e il palesamento della violenza che ancora oggi prevale: accettare le tesi di Gimbutas significa vedere che ci sono state due forme di società una matriarcale e una patriarcale. Una pacifica e egualitaria. Una violenta e discriminante. L’establishment archeologico non le ha perdonato di averle chiamate con il loro vero nome tanto che nello studio sul DNA che conferma la sua teoria, il suo nome non viene nemmeno citato.

L’aumento della siccità nelle Steppe euroasiatiche del V e IV millennio fece sentire i suoi effetti anche sugli altopiani della Persia e della Mesopotamia. Qui erano fiorite “società matriarcali egualitarie che provenivano dalle tradizioni della Mezzaluna fertile” che dal VI millennio era a sua volta diventata sterile a causa di cambiamenti climatici.
Queste società matriarcali hanno lasciato la testimonianza dei primi sistemi di irrigazione grazie alla canalizzazione della acque del Tigre e dell’Eufrate. Secondo una tesi molto diffusa l’organizzazione dei sistemi complessi di irrigazione sarebbe stata “la causa scatenante dei primi modelli patriarcali” ma secondo Goettner-Abendroth non ci sono prove archeologiche a sostegno dell’ ipotesi. Si è di fronte solo ad un altro esempio di una lettura tutta centrata sulla unicità patriarcale della storia dell’umanità ancora imperante in molti campi di ricerca.
Così come i numerosi sigilli e gettoni per il conteggio ritrovati nella zona erano strumenti per un’equa assegnazione di acqua e beni ad ogni famiglia appartenenti ai diversi clan e non strumenti di potere di una élite economica. E ciò sempre in considerazione dell’assenza di testimonianze archeologiche.

“Lo status delle donne nelle culture matriarcali dell’antica Mesopotamia … si basava sulla loro importanza come produttrici agricole e orticoltrici in un ordine sociale creato attraverso la linea materna, e sul significato religioso che rivestivano come rigeneratrici degli antenati.”
Le ondate di popolazioni che si spostavano dalle Steppe in cerca di acqua e territori più accoglienti, obbligò le popolazioni locali ad abbandonare gli insediamenti permanenti della loro florida e colta società. Ma l’abbandono della cultura matriarcale in quest’area non fu repentina. La gente si trasferì in aree di campagna dove le donne, grazie anche all’invenzione dell’irrigazione artificiale, riuscirono a mantenere il proprio ruolo di lavoratrici della terra e di conseguenza la loro indipendenza. Le donne mantennero il rispetto della comunità anche con l’insediamento dei Sumeri, che erano una popolazione immigrata ma di origine sconosciuta, né indoeuropea e neanche semita. Nei primi insediamenti templari sumeri la visione religiosa è fondamento della vita sociale: “la terra arabile intorno al centro abitato, oltre alla città stessa con tutti i suoi abitanti, apparteneva in ultima istanza alla divinità cittadina che viveva nel tempio e che proteggeva il nucleo urbano.” La divinità era la madre della terra, come Inanna venerata per oltre un millennio nella città di Uruk. Siamo in una società tardo-matriarcale: egualitarie e senza sistemi di dominio. Una società “a ranghi” con le figure onorarie dell’alta sacerdotessa e del re sacerdote.
Il passaggio a forme più propriamente patriarcali avvenne ancora una volta come effetto di cambiamenti sociali, tra la fine del IV e l’inizio del III millennio: a causa di una sempre più grave mancanza di acqua la popolazione abbandonò le campagne e si trasferì nelle città.
L’aumento di popolazione dei grandi insediamenti urbani, in cui il sistema idrico era meglio organizzato, fece aumentare i sistemi di controllo e l’accentramento dei poteri decisionali. L’attività maschile divenne sempre più importante, quella delle donne, private del contesto agricolo e della struttura dei clan, sempre più marginale; ma la sua posizione nell’ambito sociale era ancora rilevante fino all’invasione delle tribù semitiche che segnò l’annientamento dell’antica religione matriarcale e la perdita di status delle donne.

Le compromesse condizioni materiali di vita avevano dunque stravolto quell’impianto sociale e culturale, sia dell’Asia occidentale che dell’Europa, che fino ad allora era profondamente ispirato da un senso di unicità della vita, nei suoi aspetti materiali e immateriali, ed era tenuto insieme da un senso di connessione del tutto che non lasciava spazio all’individualismo, che sarà invece il tratto peculiare del “grand’uomo”.
Stravolto “il senso di equilibrio” nella polarità femminile-maschile, che era stato un principio fondante del pensare e del vivere matriarcale, non ci fu più possibilità di arrestare il declino verso una storia umana fatta di conflitti, violenze e sopraffazione del maschio sulla femmina.

Il libro contiene un messaggio culturale e politico importante: conoscere bene le strutture sociali matriarcali, individuare le forme del loro declino, la nascita delle diverse forme patriarcali con il concatenarsi di cause ed effetti, può aiutare a percepire con più chiarezza le odierne forme di patriarcato e a fornirci strumenti per cambiare dall’interno i paradigmi culturali e quindi economici e sociali della contemporaneità. Avendo ben presente che la differenza fra società matriarcali e società patriarcali risiede nella differenza fra valori culturali e strutture sociali: nelle società matriarcali il loro scopo fondamentale è garantire la pace ispirandosi ai valori materni per cui hanno sviluppato “una vasta gamma di strategie per la risoluzione dei conflitti e per il mantenimento della pace che è sconosciuta alle società patriarcali.”
Questo libro potrà aiutare a riflettere sui passi necessari in un momento come quello che stiamo attraversando ! “Il primo passo del percorso è diventare consapevoli.

Giusi Di Crescenzo