Le nostre parole per dirlo

Il primo e unico schiaffo datomi da un ragazzo ancora lo ricordo. Avevo vent’anni e lo stavo lasciando, per la seconda volta in un anno, la definitiva.

Fu talmente forte e violento che caddi a terra di schianto. Piansi d’istinto, un pianto di dolore e paura. Seguirono le sue parole di scusa, ma di fronte al mio repentino invito ad andarsene, tornarono le offese piene di odio e rancore. Ci mise tempo ad andar via, mentre io mi sentivo alla stregua di un ostaggio.

Conobbi lo stalking, quando non era ancora previsto dalle leggi dello Stato.
L’essere seguita, in macchina, per strada, apostrofata, assediata.

Ma insieme alla violenza manifesta c’è stata anche quella verbale, i complimenti beceri e sessisti, le avance gratuite, volgari e senza rispetto. Le palpate sugli autobus, i corpo a corpo dai quali si cercava disperatamente di svincolarsi in mezzo alla folla accalcata in piedi, come un muro silenzioso e complice. Nessuna sponda.

E le parole maschili di scherno e disprezzo quando, appena adolescente, ero troppo magra, troppo secca, troppo brutta, con troppi foruncoli.

Il primo insulto, da bambina di neanche dieci anni, arrivò da un altro coetaneo che mi invitava scandalizzato a vergognarmi delle mie gambe libere nei minishorts rosa, in un’estate lontana, mentre si giocava sotto il portone di casa.

Di colpo mi guardai le gambe, come se fosse la prima volta, non capendo dov’era la vergogna rispetto alle sue.

Non ero ancora cosciente di appartenere di fatto ad un sesso specifico, quello femminile, o forse semplicemente non vivevo né capivo differenze sostanziali.

Ancora adesso lo ricordo così bene quel momento, insieme ad altri mi è rimasto dentro, il mio sguardo sul mio corpo inesorabilmente contaminato da quello maschile.

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E poi arrivò dell’altro.

Il 15 maggio 1968 ci fu l’inizio dei lavori nella tratta Popoli- Pescara dell’autostrada A25.

La mia abitazione era in prossimità del quartiere della Cogefar che ne aveva l’appalto.

Avevo solo otto anni quando un operaio della ditta, mentre noi bambine giocavamo sotto la penultima casa del quartiere, proprio la più vicina ai lavori, mi chiamò.

Era in macchina, al posto di guida e mi invitò ad avvicinarmi. Non era mai successo.

Quegli operai erano per noi presenze familiari, li vedevamo sempre e non mi sentii in pericolo.

Ma quando mi accostai alla portiera mi accorsi che lui aveva pantaloni e mutande abbassati.

Fu un attimo, mi girai correndo a perdifiato fino a casa, piangendo in preda al panico. A casa i miei si accorsero che ero sotto shock e cercando di calmarmi mi chiesero cosa fosse successo. Io non riuscivo a parlare, devastata dai singhiozzi e dallo spavento, mi mancava il respiro e non sapevo neanche nominare quel che avevo visto, per cui quando riuscii a stento a raccontare la scena, un silenzio gelido cadde sui miei genitori, preoccupati e chini su di me.

La mia infanzia finì lì.

Nei giorni successivi non ne parlammo affatto, ma dopo una settimana mio padre mi chiese solo se fossi stata in grado di riconoscere l’uomo e indicarglielo. Risposi di sì.

Ricordo che un pomeriggio uscii in macchina con mio padre e mio zio, e parcheggiata l’auto vicino ad un negozio di ferramenta, venni invitata a guardare bene l’uomo che stava per uscirne. Era lui. Per un attimo anche l’uomo guardò nella nostra direzione.

Poi tornammo a casa.

Non andai mai più a giocare sotto quel palazzo, ma l’operaio scomparve dal cantiere, non so se trasferito in altra sede o licenziato.

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Tuttavia presto anche l’educazione cominciò a spingere i suoi paletti. Avevo la piena consapevolezza che mi era concesso una sorta di perimetro ristretto rispetto a quello dei miei fratelli o dei coetanei di sesso maschile. Orari e mansioni non coincidevano, men che meno le libertà. Tutto andava a confliggere e minare la mia autostima, già lesa.

Ma probabilmente proprio lì, pian piano, partì il lavoro certosino e costante, fatto di rabbia e ribellione, e amore di sé che cominciava a nascere, e desiderio di rispetto non giudicante, tesi a ricostruirla e ripararla. Eppure i colpi arrivavano sempre.

Come quando da adulta, durante un colloquio di lavoro, mi ritrovai davanti il responsabile di turno che, quasi a bruciapelo, mi fece la domanda canonica, a me single…

“Ma per caso hai intenzione di sposarti e fare figli?”

E potrei continuare…

Siamo in tante, siamo una marea di donne con le stesse esperienze, a volte meno a volte più pesanti e drammatiche. Ognuna di noi potrebbe raccontarle e denunciarle.

Eppure non lo facciamo, rimaniamo mute a silenziare i ricordi o forse anche il presente, qualcuna a convincersi che tutto ciò sia quasi normale.

In tante hanno percorso tutta la parabola della loro vita, da figlie, sorelle, madri, nonne fino a morire, senza uno spiraglio di cambiamento. Senza poter essere riconosciute e rispettate, come persone non discriminate, non offese, non umiliate nel corpo e nell’anima.

Perché continuiamo ancora a cadere nel pozzo? Come molto bene scrisse Natalia Ginzburg nel 1948 in un suo articolo alla rivista Mercurio (1), ed al quale rispose con una lettera l’amica Alba De Cespedes. Ma quest’ultima specificando che nel pozzo ci spingono in realtà gli uomini.

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Secondo la scrittrice Rossana Campo “Le donne nascono due volte: quando vengono al mondo e quando si raccontano.” E questo è vero e sacrosanto. Sempre.

Il primo libro che mi aprì l’orizzonte del femminismo e dell’autoconsapevolezza fu Le parole per dirlo della scrittrice francese Marie Cardinal. Lo lessi nel 1981, avevo 17 anni e mi sembrava di iniziare a toccare con mano quel che l’autrice riportava…

“La famiglia, i ruoli, la condizione di donna, la società, la morale. E a monte un’infanzia tradita, presupposti sbagliati, pregiudizi, ossessioni arcaiche, superstizioni di ceto, di censo e di fede.”

Finalmente iniziava il riconoscimento, quelle parole erano anche le mie.

Riguardavano anche me.

Forse è proprio questo che dovremmo capire, dovremmo iniziare ad usare le nostre storie come un atto politico.

E uscire dal pozzo.

Armate.

Brunella Campea

Litania per la sopravvivenza
di Audre Lorde

Per quelle di noi che vivono sul margine
Ritte sull’orlo costante della decisione
Cruciali e sole
Per quelle di noi che non possono lasciarsi andare
Al sogno passeggero della scelta
Che amano sulle soglie mentre vanno e vengono
Nelle ore fra un’alba e l’altra
Guardando dentro e fuori
E prima o poi allo stesso tempo
Cercando un adesso che dia vita
A futuri
Come pane nelle bocche dei nostri figli
Perché i loro sogni non riflettano
La fine dei nostri

Per quelle di noi
Che sono state marchiate dalla paura
Come una ruga leggera al centro delle nostre fronti
Imparando ad aver paura con il latte di nostra madre
Perché con questa arma
Questa illusione di poter essere al sicuro
Quelli dai piedi pesanti speravano di zittirci
Per noi tutte
Questo istante e questo trionfo
Non era previsto che noi sopravvivessimo

E quando il sole sorge abbiamo paura
Che forse non resterà
Quando il sole tramonta abbiamo paura
Che forse non si alzerà domattina
Quando abbiamo la pancia piena abbiamo paura
Dell’indigestione
Quando abbiamo la pancia vuota abbiamo paura
Di non poter mai più mangiare
Quando siamo amate abbiamo paura
Che l’amore svanirà
Quando siamo sole abbiamo paura
Che l’amore non tornerà
E quando parliamo abbiamo paura
Che le nostre parole non verranno udite
O ben accolte
Ma quando stiamo zitte
Anche allora abbiamo paura

Perciò è meglio parlare
Ricordando
Che non era previsto che noi sopravvivessimo

Audre Lorde (1934-1992), poeta e scrittrice statunitense
Poesia tratta da The Black Unicorn (1978)
Traduzione italiana di Margherita Giacobino

Per chi volesse scrivere le sue parole:
autricidicivilta@gmail.com