Finora le donne non hanno “concettualizzato” la propria esperienza del mondo: riconosciamo come nostro un modo di essere attraverso le operazioni del quotidiano, attraverso le relazioni con le persone, attraverso quella che è la “competenza” femminile nella gestione della vita. È un’implicita competenza simbolica, perché esprime un giudizio sulle cose del mondo, ma è qualcosa che tratteniamo dentro di noi senza cercare le parole per dirla.
Proviamo dunque a delineare i contorni di un “pensiero materno”. Ma, prima di tutto, non occorrerà considerare se parlare di pensiero materno non sia di per sé una contraddizione di termini, un’impresa indicibile?
Secondo la visione dicotomica propria della nostra cultura, il materno sta agli antipodi del pensiero, perché il materno è sentimento, emozione, contiguità fisica, immediatezza dell’agire, mentre il pensiero è connotato come qualcosa di astratto, razionale e ripetibile, staccato dal corpo, dalle emozioni, dalle situazioni contingenti. Il pensiero, fin qui riconosciuto come tale, è anzi reso possibile proprio dalla rimozione dell’origine nel corpo materno e dall’allontanamento dalle emozioni. È impossibile parlare di “pensiero materno” usando rigorosamente la logica del vocabolario. Però la scommessa è questa.
Come parlarne, dunque? Prima di tutto cercando di restare aderenti alla forma di “pensiero” che abbiamo imparato tra noi: un pensiero continuamente in processo, che non si ferma su definizioni statiche, ma che nasce dall’abitudine cognitiva basata sul mutamento, sulla sintesi sempre nuova e mai definitiva, guadagnata momento per momento. Ben consapevoli che perciò a nulla ci servirebbero marmorei proclami al femminile, puri contraltari alla mortifera catalogazione maschile del mondo. E coscienti del fatto che, nell’impostare così generalmente la domanda, esiste il pericolo di formulare ipotesi fuori dal tempo e dallo spazio, di resuscitare “l’eterno femminino”.
Occorre allora riuscire a dire non solo di sé ma a partire da sé nel punto in cui ci si trova.
Ho trovato una teorizzazione vicina al mio sentire in Teresa De Lauretis, che indica l’esperienza femminile come “quel complesso di abitudini, disposizioni, associazioni e percezioni che fanno acquisire il genere femminile” e chiama la soggettività come il “prodotto non di idee, valori o cause materiali esterne, ma del coinvolgimento personale in pratiche, discorsi, istituzioni che danno rilevanza (valore, significato, sentimento) agli eventi del mondo.”<fn>Teresa De Lauretis, Pratica d’amore. Percorsi del desiderio perverso, La Tartaruga Edizioni, Milano 1997</fn>
La soggettività si costruisce attraverso un percorso di consapevolezza, un processo nel quale la propria storia è interpretata o ricostruita da ciascuna entro l’orizzonte di significati e conoscenze disponibili nel suo contesto culturale, un orizzonte che include anche modalità di impegno e lotta politica; la consapevolezza non è mai perciò fissata, colta una volta per sempre, perché i confini del discorso cambiano come le condizioni storiche, geografiche, sociali, affettive, ecc.
Con ciò non si intende affatto prefigurare un soggetto “frammentato e inesistente”, in sintonia col decostruttivismo post-derridiano, il pensiero filosofico maschile contemporaneo al femminismo, che celebra per conto suo la crisi dell’unico soggetto fin qui esistente, quello maschile, bianco, borghese, ecc. Non è su questa strada che si muove il pensiero delle donne. Se la crisi del maschio occidentale vede oggi scompaginarsi tutto in atomi impazziti, nel senso che ognuno va per la sua traiettoria senza già prefigurare possibilità di nuovi incontri, il nostro emergere alla superficie del simbolico, multiple e complesse, non prefigura né un ordine immutabile né semplicemente frammentato o intermittente. La formulazione di soggettività di De Lauretis dà facoltà di agire all’individuo, nel momento in cui lo pone all’interno di particolari configurazioni discorsive e concepisce il concetto stesso di consapevolezza come la strategia possibile.
Occorre perciò non azzerare il corpo e il luogo da cui viene la voce di chi prende parola, perché il corpo, il luogo e la voce fanno il discorso, gli danno incisività tanto quanto ogni sottrazione di realtà produce impoverimento e astrazione. Per parte mia, è evidente che quello che oggi sono e voglio significare è il frutto di una serie infinita di combinazioni e sedimentazioni geografiche, storiche, sociali, culturali che si sono depositate su di me donna nel corso del tempo diversamente che se fossi nata uomo. E se singolarmente non sono come un’altra, tuttavia condivido, con altre donne, il trovarmi oggi alla confluenza di un intreccio, materializzatosi attraverso secoli di addestramento al femminile. Senza bisogno di caserme, ma solo di innocenti appartamenti e appartenenze familiari.
Ci sono stati anche, e ancora ci sono in forme diverse, corsi intensivi di addestramento sui roghi e negli harem. Per tutto ciò abbiamo pagato, in cambio della sopravvivenza, duri prezzi e menomazioni: psichiche, emotive e simboliche. Ancora non sappiamo bene quanto profondamente la nostra natura di individui femmine della specie umana sia stata alterata. Di tutto questo ho coscienza, e modula la mia voce nel parlare.
Se dunque penso il femminile come prodotto delle forze che lo hanno modellato nella storia, nello stesso tempo lo vedo anche fatto da una sorta di elemento universale e metastorico, costituito dal nascere donna da un corpo di donna. Questo è il dato connaturato all’esistenza di donne e uomini; ed è ancora l’asimmetria rispetto al luogo d’origine, la relazione diversa col luogo d’origine che fonda la differenza sessuale. Solo tenendo insieme questi due aspetti, storico e metastorico, del femminile potremo delineare una mappa della nostra identità. Ed è in questa cornice che mi accingo a parlare di pensiero materno.
Il potere delle madri.
Di Susan Suleiman Rubin una volta ho trascritto questa frase che mi aveva colpito molto: “Ciò che il bambino percepisce come onnipotenza materna è percepito dalla madre come responsabilità assoluta”.
Un unico fatto visto da due angolature diverse: la potenza della madre, agli occhi del bambino, appare alla madre come limite molto stretto alla propria libertà e al proprio agire. Inoltre, ci troviamo subito davanti il successivo paradosso: potenza materna/assenza di potere simbolico e sociale. Siamo il luogo di un’insostenibile contraddizione: apparire come le più potenti a chi diamo la vita, scomparire nell’assoluta insignificanza dell’ordine dato, e di ciò render conto ai figli e alle figlie.
Viviamo in una società matrifobica che venera la Madonna, in una realtà reattiva al potere delle madri, fantasticato come incontrollabile, di dare/negare la vita. Alimentata da questo immaginario, la scienza da tempo insegue il miraggio di sostituirsi ai corpi che generano nella propria carne o, quanto meno, di farsi sistema che controlla la vita e legifera sulla morte. E di strappare, mostrando la perseveranza dell’immaginario baconiano, tutti i segreti custoditi da Madre Natura nella materia. È così che è nata la bomba atomica, parto alla rovescia della mente maschile, soprannominata dagli scienziati che assistevano trepidanti al primo esperimento nel deserto “il piccolo”. Una società mortifera e matrifobica, che tiene in atto da qualche millennio la negazione di qualsiasi segno autonomo di un sé femminile libero di essere per sé.
L’intersecazione difficile da districare nel “potere” delle madri sta nel suo appartenere a chiasmo al piano biologico e a quello culturale, a quello fantasmatico e a quello simbolico. Il potere di mettere fisicamente al mondo è un “potere” riproduttivo del corpo, mentre la “competenza materna” – tutta la storia che inizia dal momento in cui un bambino viene alla luce – di biologico ha molto poco. Distinguere tra il “mettere al mondo” fisico e il “mettere al mondo” culturalmente e singolarmente può quindi già essere utile a togliere un po’ della confusione che copre questi fatti.
Ci sono studi che hanno dimostrato come l’insorgere del “senso materno” sia determinato dagli ormoni. Si dimostra, a sostegno di questa tesi, che il pianto di un cucciolo, sia di animale che di donna, produce nella madre una reazione chimica che la porta “istintivamente” a preoccuparsi del piccolo. Si dice anche che il pianto provochi la montata lattea. Senza voler negare correlazioni sempre evidenti tra emozioni psichiche e loro espressione fisica, sicuramente però quella che chiamiamo “competenza materna” – indicando con questa espressione quell’insieme di cure, di atteggiamenti e di pensieri che la madre deve sviluppare dentro di sé per accudire il figlio/a – è qualcosa che viene appreso successivamente all’atto della nascita. Anzi, non tutte le donne riescono in questo apprendimento. Molte donne rifiutano il figlio nel momento in cui non è più “il bambino della notte” (Silvia Vegetti Finzi), ossia del desiderio e dei sogni, in modi più o meno eclatanti o larvati. In tutte noi, forse, c’è il ricordo di un momento di difficoltà, di un senso d’incapacità, quasi un desiderio di sottrarsi davanti al materializzarsi del peso, della fatica, dell’ineludibilità dei bisogni da soddisfare – per lo più da sole. Come un desiderio prepotente di sottrarsi alla scena, ora che il figlio o la figlia c’è. Desiderio di sottrarsi che in alcuni casi insorge anche molto prima, al tempo delle prime mestruazioni, quando è necessario compiere il primo lavoro psichico importante di accettazione/integrazione della potenzialità materna in sé.
Inoltre, l’osservazione che quasi tutte le donne sono state o sono madri farebbe ragionevolmente supporre che ci sia una tradizione di pensieri e di pratiche operative femminili trasferite alle future madri di generazione in generazione. Invece nella nostra realtà di donne nel patriarcato è come se ogni volta ciascuna reinventasse tutto da sé per la prima volta. Proviamo dunque a rappresentare ciò che facciamo. Proviamo a nominare i criteri sui quali, come madri, valutiamo i successi e i fallimenti del nostro “lavoro”. Cerchiamo di stabilire quali sono le priorità che ci poniamo e di identificare le virtù e la responsabilità necessarie.
L’agire materno.
Per prima cosa dobbiamo prendere atto che ci troviamo ad agire in una situazione avversa: gli obiettivi dell’agire materno non coincidono con gli obiettivi dell’agire pubblico, cioè con quelli che sono i valori generali della società.
Lo scopo globale del materno è quello di mettere al mondo, guidare, proteggere, comprendere la vita dell’individuo e del gruppo di cui fa parte o, per dirlo concretamente, crescere un figlio o una figlia vuol dire sviluppare e rendere adatto e accettabile il proprio “prodotto” al gruppo sociale. Questi obiettivi non coincidono con quelli pubblici: è ormai evidente da tempo che viviamo in una società in cui, sia nel rapporto con gli altri che con la natura e le “risorse” in genere, non c’è assolutamente nulla di un atteggiamento che miri a proteggere e conservare, a far sviluppare liberamente le potenzialità di chi ancora deve “crescere”.
I valori che guidano la società in cui viviamo legittimano sfruttamento e rapina, perseguono a tal fine il soffocamento delle singole individualità e dell’autonomia di giudizio. Tutto concorre a formare individui uniformi, conformi a stili e modi di essere omologati sul basso, funzionali al proprio riprodursi immodificato. La pubblicità studiata per i piccoli, come quella per i grandi, propone già confezionati in variopinti modelli usa e getta i “valori” che dobbiamo far nostri e a cui giorno per giorno ci impegniamo a corrispondere, attraverso un lavoro peraltro attivo e non con un passivo adagiarsi: facendo un incessante lavoro di raccordo tra ciò che confusamente siamo e il modello proposto. Questo lavorio per continua esposizione mira a rendere innocua ogni individualità, singolarità e differenza e va nella direzione di soffocare, anziché crescere degli individui. La gestione della sfera pubblica, fitta di presenza di maschi in ogni suo diverso ambito, è dunque ispirata a valori che sono l’opposto di quelli nella stanza dei bambini, dove brilla l’assenza dei padri.
Spingendo poi lo sguardo a come l’insieme delle pratiche materne agisce, possiamo mettere a fuoco meglio qual è l’atteggiamento di base necessario a una madre nei confronti della sua prole, per essere efficace nel conseguimento dei suoi obiettivi. È un misto di attenzione e amore (Sarah Ruddick), fatto di capacità di vedere l’altro e di vederlo con empatia, riuscendo ad accettare e a gestire, emotivamente e praticamente, il suo differire da lei e dai suoi desideri. Questo atteggiamento di attenzione e amore è reso possibile solo da una rapida capacità di riflessione, contemporanea alla capacità di giudizio.
Occorre saper dire “giusto o sbagliato” momento dopo momento, ma non in base a qualche regola astratta o razionale soltanto, bensì sapendo riconoscere con disponibilità i perché dell’altro: arrampicarsi su una sedia o essere in ritardo non possono essere giudicati sempre in un solo modo. Questo è un requisito fondamentale. Va da sé che non sempre siamo in grado di garantire, in ogni momento della giornata e di giornate tutte tra di loro diverse dietro l’apparente uniformità, un atteggiamento che concentri il massimo della disponibilità con il minimo della distrazione, uniti da uno stato di consapevolezza: ossia la corrente profonda che rende possibile il rapporto.
Favorire la possibilità che l’altro sbocci, maturi per quello che è, senza mai dimenticare se stesse nella relazione, è un compito svolto fin qui intuitivamente, in cui lo spazio riconosciuto al sé della madre è direttamente proporzionale alla riuscita di questo lavoro. Un compito che poi l’ambiente esterno, man mano che allarga la sua sfera d’azione sul bimbo o sulla bimba, smentisce, sminuisce, contraddice anziché rinforzare confermando gli sforzi materni.
Quanto all’obiettivo di rendere accettabile socialmente questo particolare tipo di “prodotto”, le complicazioni sono, se possibile, ancora maggiori, perché entrano in gioco molte altre variabili e il lavoro di equilibrismo è ancor più senza rete.
Se accettiamo il ruolo di ripetitrici dei valori dominanti, ci annulliamo in una sorta di amplificatori della voce altrui. Allora le difficoltà sono contenute, purché la coscienza sia addormentata. Non credo, tuttavia, che esistano donne talmente deprivate di sé da poter svolgere un ruolo del genere senza lasciar trapelare nessuna contraddizione. Comunque, quello che si guadagna in questa ipotesi è, nel migliore dei casi, l’inautenticità sia del rapporto che del prodotto finale. La comunicazione in un rapporto così stretto come quello madre-figlio/a passa soprattutto al di là delle parole e dei contenuti volontari che diciamo, passa attraverso tutti gli altri pori della comunicazione non verbale, che dà le indicazioni inequivocabili su come va inteso il messaggio verbale. Non c’è niente di peggio che dare un ordine o un divieto che va in una certa direzione e contemporaneamente significare l’opposto col tono della voce, con una sfumatura dello sguardo, col corpo. Il doppio messaggio contradditorio paralizza chi lo riceve e lo mette nella condizione di sentirsi in errore, fuori posto, genera insicurezza su di sé e sulle proprie percezioni.
Inviare questo tipo di messaggi è, paradossalmente, la cosa più comune e frequente nell’attuale posizione delle donne. Lo facciamo, per esempio, anche tutte le volte che tentiamo di giustificarci dicendo “L’ho fatto per il suo bene, mi sono sacrificata per lui (o per lei)”. È una bugia bella e buona. Può darsi che nell’immediato il beneficio sia apparentemente a vantaggio dell’altro/a, ma a lungo termine, com’è inevitabile in una convivenza che dura nel tempo, il risultato falsamente positivo verrà eroso dalla lenta azione contrastante di mille rivoli sotterranei, che porteranno come guadagno finale nevrosi e infelicità per entrambi i poli della relazione.
La seconda ipotesi è che ogni donna abbia coscienza di sé o coscienza femminista. I due casi non necessariamente coincidono, perché ci sono sempre state donne con un nucleo forte e cosciente di sé anche in tempi o luoghi in cui non c’era visibilità sociale di donne in movimento. Sono le donne che hanno saputo o potuto seguire il proprio sentire, molto preciso anche se non “simbolizzato”. In questo caso, i valori dominanti sono passati al vaglio della propria soggettività. La complicazione che può sorgere, in questa ipotesi e purché la disconferma del sociale non abbia comunque la meglio, è quella di mettere in circolazione un “prodotto” troppo diverso, o anomalo, o poco duttile, che verosimilmente dovrà lottare duramente per non venir fatto fuori dalle regole del mondo. Anche oggi abbiamo paura di produrre figli e figlie troppo poco “conformi”, li/le vediamo già esclusi/e e feriti/e, subito ci assale il dubbio e la colpa. Ci vediamo avanti negli anni imprigionate e sole nella cura di tali “prodotti” rifiutati dal mercato. E ci ricostringiamo dentro i contorni familiari dell’economia spicciola della sopravvivenza quotidiana.
Il criterio di accettabilità del prodotto che la madre sforna è estremamente difficile da stabilire e varia con il variare delle posizioni che occupiamo. Conosciamo invece molto bene i risvolti emotivi e comportamentali che tali pesanti e solitari pensieri lasciano in noi, l’ansia e la depressione dell’essere madri avendo presente, più o meno chiaramente, più o meno oscuramente, questo quadro del nostro fare nella nostra posizione. In molti casi la situazione psicologica in cui si cade è quella della malinconia: se tutto è così ostile, se tutto è così complicato, la depressione è lo stato d’animo progressivo che può facilmente insinuarsi nel nostro stato emotivo.
Anche l’atteggiamento opposto, una sorta di euforia, una sorta di allegria a tutti i costi: l’immagine della madre eroica, mai abbattuta da nessun ostacolo, mette in scena una forma diversa di reattività alle stesse difficoltà. Quando si consumano le proprie energie, le proprie ore, i propri anni per curare, governare, educare e si considera lucidamente che non c’è un ambiente che accolga i nostri figli e le nostre figlie ispirato al rispetto della persona, ma che piuttosto il riconoscimento avviene in base al possedere, all’apparire, all’essere insensibili corazzati e violenti o remissive vuote e ridenti, che non c’è posto per tenerezza e protezione, ebbene, come non sentirsi intrappolate in un compito disperato e reagire per eccesso?
Di questo tipo sono per lo più i “pensieri materni” nel loro quotidiano configurarsi. Ma c’è ancora un aspetto, solitamente malinteso, che nemmeno in questa prima chiamata al di qua della soglia dell’ineffabile deve essere trascurato.
Crescere non è conservatore.
È da respingere con forza l’immagine che il lavoro di proteggere, sviluppare, conservare corrisponda a un atteggiamento cognitivo conservatore. Come se le donne volessero trattenere tutto quello che è movimento e ostacolare novità innovazione progresso. Questa è un’immagine falsa del femminile-materno.
Se andiamo a vedere ancor più da vicino che cosa avviene nella relazione con la prole, ci troviamo di fronte a quello che nel linguaggio della retorica è definito un ossimoro, una coincidenza di opposti. Le madri non devono solo conservare o proteggere la fragilità della vita, ma devono contemporaneamente incoraggiare e favorire il cambiamento e il rischio, incessantemente. Noi, di fatto, agiamo un atteggiamento tutt’altro che statico, o sempre uguale a se stesso, ripetitivo. Per spiegarmi meglio, ricorro a un paragone con l’atteggiamento scientifico, con il cosiddetto “metodo scientifico”. Secondo quest’ultimo, per poter formulare una “legge” – e già la formulazione di una legge comporta l’inchiodamento del divenire, la creazione di qualcosa che è uguale a se stesso con esclusione di tutto ciò che ad esso non si conforma – occorre inventare un qualche procedimento empirico (l’esperimento) che dimostri la ripetibilità di un determinato fenomeno. Il metodo scientifico cioè opera attraverso una riduzione del complesso e una fissazione di quello che è mobile, imprevedibile, vivente. Tutto ciò che non si lascia ridurre all’eguale a se stesso viene escluso come resto, scarto, noiosa eccezione che disturba l’ordine (artificiale).
L’atteggiamento cognitivo materno è ben diverso da siffatto atteggiamento scientifico: sappiamo per esperienza continuamente rinnovata che, anche se ci troviamo in una situazione in cui ci siamo già trovate in passato, oppure con un altro figlio/a nella medesima situazione, difficilmente potremo ripetere la stessa lettura o la stessa forma di intervento, perché la quantità di variabili implicate in una relazione tra viventi, e non tra segni o tra relazioni ridotte a segni, è tale per cui ci dobbiamo sempre confrontare con strutture aperte, in movimento. La nostra relazione di madri coi figli è una struttura aperta, in cui uno schema concettuale conservatore porterebbe al fallimento.
Lo schema concettuale materno è basato sulla capacità di accettare in continuazione l’innovazione e l’eccezione. Se non riusciamo a mettere in atto questo tipo di atteggiamento, finiamo per avere un effetto pesantemente inibitorio, mortifero e castrante sui nostri figli e figlie.
Eppure, conosciamo anche la tentazione di impedire il distacco dei nostri figli/e. Spesso desideriamo che non crescano, che non cambino, che non ci lascino, e non solo per le ragioni esposte prima circa la discrepanza di valori e lo sgomento di vederli andare in un luogo infido. Ma perché il distacco si configura come una perdita, un improvviso vuoto di presenza e senso nel quotidiano, fino ad assumere i contorni di un vero e proprio abbandono e tradimento difficile da accettare. In un contesto ostile, che non favorisce nelle donne sensi di identità autonoma e scopi che vadano oltre al ruolo di madri, non sempre riusciamo ad agire l’atteggiamento cognitivo aperto all’imprevisto, che appartiene al sapere e all’agire positivamente.
E si torna così a quell’”indistinto con la madre”, riprodotto nei confronti dei propri figli e figlie e forse per questo le linee nette di demarcazione tra interno ed esterno non ci appartengono più di tanto: dove inizia il fuori di me, dove finisco io? Le donne spesso raccontano della soglia tra sé e l’altro, e non sempre sanno individuare i confini. Ci illudiamo in tal modo di difenderci con la nostra stessa ignoranza. La signora Ramsay di Al Faro è spesso alla finestra o sulla porta, ha il “dentro” alle sue spalle ed è girata verso fuori, col figlio sulle sue ginocchia. Ed è miope: non guarda “al di là della siepe”. In fondo, parlare di interno/esterno è ancora un modo di parlare di sé e dell’altro nel loro indistinto mescolarsi.
(prima pubblicazione in Melusine 1993)