La notizia della morte di Evelyn Fox Keller, avvenuta il 22 settembre di quest’anno, all’età di 87 anni, mi ha colpito come la morte di una persona di famiglia, perché Evelyn è stata per me una compagna di strada, un esempio, una maestra, un’ispirazione e una Sorella dell’Anima. Grande è la mia riconoscenza per lei. Che il ritorno nel Grembo della Madre le sia dolce!
“Evelyn Fox Keller, fisico del MIT (Università delle donne), mi guidò nel mondo dell’epistemologia: ossia dei fondamenti, spesso impliciti e non interrogabili perché assunti automaticamente come eterni e universali, che stanno alla base del discorso e dell’impresa scientifica moderna. Attraverso di lei conobbi il filosofo inglese Francis Bacon molto meglio di quanto non avessi fatto durante lo studio della filosofia al liceo o della storia della cultura inglese all’università, quel Bacone che nel Novum Organum (1620) scriveva frasi che sarebbero rimaste come cartelli direzionali per i secoli a venire e che non lasciavano dubbi circa la legittimità dello studio spregiudicato della natura e della rimozione di ogni remora o ostacolo al suo sfruttamento.
Oltre ai suoi numerosi articoli apparsi su riviste americane e al suo libro Sul genere e la scienza (Garzanti, 1987), in cui dà forma al suo desiderio di mostrare che un altro approccio metodologico sia non solo possibile ma auspicabile negli interessi della scienza stessa, Fox Keller scrisse la biografia di Barbara Mc Clintock, A feeling for the organism, 1983 (Enciclopedia delle donne).
Due incontri, con Evelyn e Barbara, decisivi nella mia ricerca di modalità di conoscenza altre rispetto a quelle codificate nella cultura patriarcale cristiana occidentale.
Alcune frasi di Barbara, intervistata da Evelyn, finirono per diventare parte integrante del mio dialogo interiore, frasi come “mettere a tacere dentro di sé le voci saccenti che ti dicono come devi pensare, interpretare, agire” o “essere in relazione con l’oggetto studiato ponendoti sulla sua stessa lunghezza d’onda e lasciando che l’oggetto ti parli”.
Conobbi Evelyn Fox Keller di persona quando venne in Italia, la prima volta per presentare il libro-intervista fatto da una donna di scienza italiana, fisica anche lei, Elisabetta Donini, e la seconda per un periodo di ritiro di scrittura presso la fondazione Rockefeller sul lago di Como. Fu come un coronamento degli scambi epistolari (allora non esistevano pc e email) durante la mia traduzione della sua biografia di McClintock, che uscì in Italia nel 1987, col titolo In sintonia con l’organismo (La Salamandra Editore, 1987. Ristampa Castelvecchi, 2017). Traduzione in cui fui aiutata da Maria Grazia Marzot e da un mio studente liceale, Dario A. e dalla genetista italiana Milvia Luisa Racchi per la revisione scientifica.
I temi su cui sarei tornata più e più volte a quel punto erano emersi con chiarezza, l’ordito stava bene in tensione sul telaio: la centralità del corpo, di quello femminile in particolare (avrei diffidato da allora in avanti di qualsiasi conoscenza o sapere che neghi la fonte del pensiero, il suo radicamento e passaggio attraverso il corpo), la libertà di esistere al meglio del proprio essere come aspirazione comune a tutte le forme di vita, la necessità e possibilità di fondare paradigmi gnoseologici pienamente umani e non zoppi come quelli esistenti che “camminano su una sola gamba” (Lama Tsultrim Allione) e sono perciò basati su una mancanza che diventa patologia” (da Verso il luogo delle origini. Un percorso di ricerca del sé femminile, 1982-2014, Castelvecchi 2016, p. 13-16).
Per ricordarla, e per introdurla a chi in quegli anni non c’era ancora, ecco un mio articolo, scritto per RETI, 3 maggio-giugno 1992, e ripubblicato in Verso il luogo delle origini, citato sopra, pp. 37-41.
LA SOLITUDINE DI UNA SCIENZIATA.
Ho molto amato, durante questi ultimi dieci anni, il modo di pensare di Evelyn Fox Keller: attraverso i suoi articoli prima e i suoi libri poi, ho progressivamente apprezzato la sua intelligenza limpida, la sua maniera di coniugare psicoanalisi e scienza, i più intimi movimenti intrapsichici e le più astratte categorie universali. In particolare, il suo riflettere sul costituirsi della categoria di Oggetto, che mi sembra andare al cuore del nostro sistema simbolico, toccando il luogo da cui si dirama tutta l’organizzazione logica ed emotiva del nostro universo linguistico-cognitivo.
Io non sono una scienziata, e tuttavia ho sempre nutrito una curiosità appassionata per la scienza, per i suoi procedimenti metodologici e la sua lettura dei fenomeni osservabili: passione che ha sicuramente a che fare con l’essermi rappresentata la scienza – a differenza della filosofia e delle speculazioni teologiche – come luogo della conoscenza massimamente astratto e simultaneamente concreto, dove il pensiero conserva la sua relazione con le cose, pena la sua vanità. Immagine che corrisponde forse a un bisogno personale di rassicurazione e di interezza, alla sensazione cioè di poter restare con i piedi per terra anche mentre la mente vola. Ad ogni modo, la verità che origina da un corpo a corpo con le cose, e non solo dal pensiero e dalle sue logiche interne di combinazione, mi è sempre apparsa come la conoscenza più corrispondente al mio desiderio di cercare la trascendenza mantenendo la relazione con le cose, e non elidendo quanto fa ingombro o resistenza a uno stato dell’essere che si pretende ripulito e disincarnato.
Non che la scienza sia esattamente così, ma è l’incontro col pensiero di Evelyn Fox Keller che mi permette di immaginare come vorrei che fosse ogni forma di conoscenza. Basata su una curiosità cognitiva che arriva a toccare l’altro da sé, tale conoscenza farebbe uscire il soggetto dal suo autismo infantile e difensivo e, accettando il limite posto dal riconoscimento dell’esistenza dell’altro, potrebbe raccontare il mondo come appare mediato da una relazione tendenzialmente equilibrata tra l’osservatore e l’osservato. E inoltre, cosa tutt’altro che di secondaria importanza, permetterebbe di agire nel mondo, traducendolo in operatività e in efficacia, non un desiderio di onnipotenza ma di consapevole modificazione di quanto tocca e trasforma, secondo i propri bisogni.
Di Evelyn Fox Keller abbiamo anche conosciuto il modo, amoroso e attento, con cui ha raccontato Barbara McClintock, scienziata anomala, geniale e pervicace quanto poche altre. Ora, questo libro-intervista, Conversazioni con Evelyn Fox Keller[1] , pensato e realizzato da Rossella Di Leo e Elisabetta Donini, intervistatrice d’eccezione in quanto a sua volta ben nota “donna di scienza” italiana, di Evelyn ci fa intravvedere la vita, il contorno fisico, le emozioni e lo spessore che stanno dietro al suo pensiero, man mano che prendeva forma nelle vicende concrete, calate nei tempi e nei luoghi in cui sono maturate.
Conversando come sanno fare due donne che, pur non conoscendosi prima di persona, sanno l’una dell’altra e sono spinte da un condiviso amore per una ricerca comune e non perdono tempo a girare intorno, ma subito iniziano a dirsi le cose che contano, Evelyn racconta di sé figlia, studentessa, scienziata, moglie, madre, femminista e filosofa, e intanto il suo pensiero si collega alle vicende della sua vita, nel farsi dei giorni, delle scelte, degli incontri, anche casuali e non necessariamente cercati.
Prende così forma, davanti ai nostri occhi, una persona “ostinatamente coerente” nella sua “traiettoria” esistenziale e di pensiero, spesso in contrasto con l’ambiente esterno, osteggiata in campo scientifico – soprattutto dalle donne in carriera, infastidite dalle sue posizioni intransigenti e recentemente anche dal femminismo decostruzionista e politically correct.
“Qual è il mio rapporto con la scienza? In una parola, complicato. È vero che non faccio più lavoro tecnico in campo scientifico. Tuttavia continuo a pensare da scienziata e non mi sento di dire che non lo sono più in quanto molte delle questioni che tutt’oggi sollevo sono direttamente collegate anche a questioni tecniche. A volte ho identificato nuovi progetti di ricerca tecnica all’interno dei miei studi filosofici e ho cercato di svilupparli. Ma in verità è troppo difficile (almeno per me) svolgere contemporaneamente lavoro tecnico e filosofico/storico … Oggi il mio pubblico è cambiato. Dieci anni fa mi sentivo ai margini della scienza e al centro della teoria femminista; cercavo di coinvolgere dal punto di vista della teoria femminista gli scienziati attivi. Ora non più.”
Oggi Evelyn è una donna conosciuta nel mondo, in Europa come in Asia, in situazioni diverse che hanno risposto – rielaborando in proprio – alle sue lucide questioni, e che tuttavia pensa a sé come a una persona cui sono state chiuse molte porte in faccia, dall’accademia soprattutto, e che ha conosciuto la fine di un sogno (il femminismo degli anni Settanta) consumatosi nell’ostilità, e che ora si percepisce più fortemente che mai come “un’estranea”.
“Quando facevo la scienziata avevo capito fin dall’inizio di essere innamorata del potere intellettuale della fisica e allo stesso tempo di sentirlo come un mondo estraneo. Alla scuola superiore avevo resistito a entrare in quel mondo e quando poi mi ci sono ritrovata dentro ho sempre avuto la sensazione che “quella non ero io”, che il mio vero io stava da un’altra parte. L’emergere del movimento delle donne e la teoria femminista mi hanno dato, grazie al mio lavoro su genere e scienza, la possibilità di collocarmi in modo molto più autentico. Sentivo che ero in grado di accettare le mie ambivalenze, di utilizzarle, di impiegare risorse che avvertivo come genuinamente mie e per quella ragione capivo che ero in grado di produrre qualcosa di molto originale, che emergeva dalle profondità della mia esperienza. A quell’epoca, fine anni Settanta e inizio anni Ottanta, percepivo l’esistenza di un mondo fuori di me in cui c’era posto per quelle risorse … Oggi il mio senso di estraneità si estende dal mondo della scienza al mio rapporto con la teoria femminista: dove sta allora il mio mondo?
Esso sta nelle crepe, come mi ha detto una volta un’amica. Vivo nelle fessure tra i vari mondi.”
Guarda al futuro con molto meno ottimismo e tuttavia continua, con caparbietà, a voler cambiare la scienza, a voler cambiare il mondo:
“Io voglio davvero cambiare la scienza, è sempre stato il mio obiettivo. Ho ambizioni modeste, come si vede: voglio solo cambiare la scienza! All’inizio pensavo che avrei aperto la discussione e altri l’avrebbero continuata e avrebbero trovato i modi per cambiare la scienza. Beh, non possono, non sanno come fare. E così sento che anch’io devo inventare qualcosa.”
E prosegue, incalzata dall’intervistatrice:
“Il mio è sempre stato un percorso di cambiamento, ma ciò che sembra essere una costante in questo percorso è la coscienza della differenza tra la particolarità della mia posizione e quelle altrui. Sì, sono molto cosciente delle differenze, ma è scomodo, è un modo scomodo di vivere. Vorrei avere un mondo che possa chiamare mio.”
L’interazione che si stabilisce tra Donini e Keller spesso raggiunge momenti di grande intensità, come quando toccano le questioni della diversità e del conflitto, le differenze tra sesso e genere, l’impegno direttamente politico, l’appartenenza o l’estraneità. L’intervistatrice regge il filo con abilità e determinazione e, apparentemente in ombra, guida il fluire del racconto, a volte cercando di smussare i picchi di intensità emotiva del racconto che Evelyn, senza troppe reticenze, svela.
Emerge il profilo di una donna che nel corso degli anni ha elaborato l’autonomia come capacità di “sopravvivere” ai margini, fedele al proprio sentire profondo: non è un racconto trionfale, si sentono i segni che il tempo e le vicende, spesso avverse, hanno impresso su di lei. Il reaganismo tutt’intorno e i conflitti nel movimento delle donne hanno smorzato l’enfasi. E già il movimento, inteso come brodo nutriente (“Ed è stato un tempo veramente felice e forte. Noi stavamo scoprendo … ed era veramente un noi, donne che s’identificavano l’una nell’altra … Ci spedivamo i nostri lavori, traversando i campi diversi e cercando veramente parole comuni. Ad esempio, qualcuno mi ha mandato la fotocopia di un manoscritto di una psicologa che si chiamava Carol Gilligan e io le ho scritto … Oppure Sarah Ruddick, con cui discutevamo in cucina…”)[2], si allontana sullo sfondo, diventando quasi leggenda.
Ma se della sua determinazione a continuare nel cammino intrapreso non si può dubitare – nel frattempo ha scritto altri due libri, Keywords in Evolutionary Discourse e, con Marianne Hirsch, ha curato Conflicts in Contemporary Feminism – chiudendo il libro restano alcune sensazioni in sospeso. Ora che Evelyn Fox Keller torna al MIT di Boston, cioè “a casa” dopo l’esilio californiano, a cosa concretamente lavorerà dato che sente che un periodo della sua vita si è esaurito? Con chi cercherà nuove alleanze, visto che il separatismo paga così poco? E quanto profonde sono le ferite che ha raccontato, e come modificheranno il suo percorso, così generosamente avviato e così avaramente riconosciuto?
La sua esperienza dimostra che per lei non è stato finora possibile fare ricerca di laboratorio e contemporaneamente metterne in discussione l’impianto e le finalità. Ma se, come dice lei stessa, “spesso un cambiamento può solo venire dall’interno, ma può essere indotto da pressioni esterne”, oggi potrebbe essere una pratica estremamente feconda stare con le donne che vivono nei laboratori e osservare come e quanto stia cambiando la percezione di sé e dell’oggetto indagato e le correlate concettualizzazioni nei metodi di ogni disciplina. Perché cosa significa, essenzialmente, la profonda rivoluzione da lei richiesta con forza a chi fa scienza?
“Vuol forse dire cercare di capire senza voler controllare? Solo guardare e non toccare? Assurdo! Quale madre, quale genitore responsabile starebbe solo a guardare senza toccare? Un bimbo necessita di ogni tipo di intervento. Occorre intervenire per proteggere il bambino, per assicurarsi che non si faccia del male. Nessun genitore sano di mente direbbe ‘voglio solo capire e non toccare’. Si capisce per intervenire. Ma non per dominare.”
Si tratta dunque di portare nella cultura condivisa – e di farne uno di quei taciti presupposti che ispirano le nostre azioni – un atteggiamento di rispetto verso l’altro da sé, figlio, natura, cultura diversa, ecc. In altri termini, Keller propone uno spostamento sostanziale delle risorse psicologiche che fino ad oggi hanno modellato la nostra cultura, costantemente tesa a cancellare il fatto di essere “nati/e da donna”, sia in senso materiale che simbolico, e allineata con le forze che controllano e danno la morte piuttosto che la vita. La sua metafora del mothering indica questo, una via d’uscita dall’onnipotenza della storia dell’occidente – non solo in campo scientifico – che ha lasciato segni di sopraffazione e di morte su tutto il pianeta, e un approdo a modi di essere fortemente attivi ma “in sintonia” con l’universo.
Evelyn Fox Keller e Elisabetta Donini su questo non hanno dubbi. E il libro ci lascia con il desiderio di non fermarsi a registrare le differenze ma a metterle, a metterci in discussione per realizzare effettivi rapporti tra donne, tra scienze, tra esperienze esistenziali diverse da cui cresca la forza per continuare la nuova storia comune.
Luciana Percovich
Note:
1 Elisabetta Donini, Conversazioni con Evelyn Fox Keller, una scienziata anomala, Eleuthera, Milano 1991.
2 Lapis, 9, 1990.