In questo periodo così particolare, a forza di sentir parlare o di leggere di soffitti di cristallo infranti dall’ultima presidente del consiglio, per la prima volta una donna, ma che non vuole rinunciare affatto alla declinazione maschile del suo incarico, per contrasto mi è tornata in mente Carla Lonzi, ed in particolare il titolo del bellissimo documentario realizzato su di lei una ventina di anni fa, “Alzare il cielo”.
Perché di questo piuttosto bisognerebbe parlare, di un cielo che da troppo tempo, millenni, ci comprime e schiaccia, il cielo del patriarcato.
Per cui credo di essere d’accordo con chi invece di riferirsi al soffitto di cristallo lo ha ribattezzato “precipizio di vetro”, dato che presuppone in genere l’affidare il governo ad una donna solo nei periodi storici più difficili e poco gestibili, lì dove è più semplice fallire o magari peggiorare la situazione, e parliamo prevalentemente di donne appartenenti a forze conservatrici. Qualche domanda dovremmo porcela.
A 40 anni dalla morte di Carla Lonzi siamo ancora così lontane, divise nell’interpretare, nel riconoscere e nell’agire.
Arretrate e confuse, eternamente sulla soglia di due mondi e spesso sedotte dalle sirene del patriarcato, che tagliano traguardi inaspettati, riuscendo a portarci quello stupore silenzioso e ferito, che qualcuna cerca di ribaltare a forza.
Lonzi scriveva…
“La differenza femminile sono millenni di esclusione dalla storia. Approfittiamo della differenza.” (1)
Ma ne abbiamo approfittato davvero?… O siamo tornate a tessere la nostra sconfitta?
C’è un simbolico interiorizzato che ancora continua a lavorare dentro di noi. Che non sempre afferriamo, che a volte non conosciamo persino o abbiamo dimenticato, ma che ci parla e ci riporta al punto. Ancora in tante non riescono a farci i conti.
E’ una narrazione antica che si è infiltrata sotto la nostra pelle e che continua a chiamarci come testimoni, anche quando non vogliamo.
Divise e tormentate cerchiamo compromessi, a fasi alterne e cicliche.
Tornare ad esaminare quella narrazione antica forse ci fornirebbe qualche risposta allo sgomento che proviamo oggi, chi più chi meno.
Facciamo parte di una storia fasciata di silenzio e adeguamento al maschile, ed è un dato di fatto che molte di noi faticano ancora a superare, vinte dal suo peso immane, a dispetto del tempo.
Forse in ognuna di noi esiste e resiste una Donna Ragno, da qualche parte; ogni volta che la creatività e la forza vengono a mostrarsi in tutta la loro potenza nella nostra vita, lei è lì che tesse. Tante volte nel tessere e intrecciare fili le donne avevano sostituito la lingua con una sorta di linguaggio in codice con cui esse, pur rimanendo inchiodate al loro posto e ruolo domestico, disegnavano e creavano un altro mondo, intimo e misterioso.
E’ un filo antico su cui sarebbe bello risalire per ritrovare ogni antenata che nell’arco del tempo lo ha usato per mostrarci la strada e la sua lingua, con tutte le loro storie.
Strato su strato la nostra coscienza più profonda ha raccolto tutto, in noi di certo lavora ancora il ricordo di Atena e Aracne, e quello di Filomela.
La storia di Aracne apre il libro sesto delle Metamorfosi di Ovidio, quello di Filomela lo chiude.
Eppure la nostra più grande metamorfosi non si è ancora compiuta.
Dovremmo tornare sulla figura di Atena, originariamente una delle manifestazioni della Grande Madre, nella civiltà preellenica.
Figlia di una titanessa e allevata da tre ninfe in un universo tutto femminile, successivamente venne assimilata al maschile.
Se nei più antichi racconti la sua nascita avvenne attraverso partenogenesi femminile dalla propria madre Meti, dea della saggezza, della ragione e dell’intelletto, in seguito si arriva a una partenogenesi maschile dal solo Zeus.
Quindi Atena, vergine e guerriera, nasce già armata di tutto punto dalla testa-cervello del padre, instaurando, in un certo senso, il regno del padre.
Nei miti greci si narra di Zeus che insegue la Titanessa Meti per possederla, e una volta raggiunto lo scopo, spaventato da un oracolo che predisse che dopo la nascita di una figlia, se Meti avesse concepito di nuovo sarebbe nato un figlio destinato a detronizzarlo, inghiotte Meti, che scompare per sempre nel ventre maschile.
Come se allegoricamente il maschile divorasse e assimilasse il femminile.
Ci ricorda qualcosa?
La saggezza di Meti e la sua sapienza, quella dell’antica Grande Madre, filtrate attraverso il corpo di Zeus, ritornano cambiate di segno in Atena che, degna figlia del padre e a lui accomunata, rifiuta il contatto fisico, resta vergine e guerriera e diventa dea dell’intelletto, che incarna in sé la ragione e la sapienza, ma adesso la saggezza diventa prerogativa e monopolio maschile.
Anche Jane Harrison, storica delle religioni e linguista inglese, già a fine ‘800 interpreta coerentemente il mito della nascita di Atena dalla testa di Zeus definendolo come “un disperato espediente mitologico, per liberarla dai suoi precedenti matriarcali”.
Tracce dell’antico potere femminile di Atena restano nel suo essere protettrice delle arti femminili collegate alla Luna.
Associata quindi al serpente e alla civetta è dea della tessitura, in quanto è compito della Luna governare trame e orditi, ma Atena in realtà tesse la sconfitta delle donne e del femminile, come il mito di Aracne ci narra chiaramente.
Nel mito Aracne, formidabile tessitrice e ricamatrice, era molto famosa per la sua bravura in quest’arte, e nonostante i dubbi nelle varie versioni della storia sul fatto se fosse stata o meno allieva di Atena, rivendicava per sé il suo talento naturale e prodigioso.
Da lì la sfida ad Atena che in principio, sotto le sembianze di una vecchia, la avvertì consigliandole una maggiore modestia per non adirare la dea, ma alla dura risposta di Aracne, Atena si rivelò e la gara tra le due ebbe inizio.
Mentre Atena raffigurò nella sua tela i dodici dei dell’olimpo in tutta la loro grandezza e magnificenza, riservando ai quattro angoli, come monito, la rappresentazione dei quattro episodi che mostravano la sconfitta dei mortali che avevano osato sfidare gli dei, Aracne nel suo splendido lavoro rappresentò gli altri amori degli dei, quelli che non fanno loro onore, in quanto frutto dell’inganno.
Il lavoro di Aracne era perfetto, ma Atena presa dall’ira stracciò la tela e colpì la rivale con la spola. Oltraggiata, Aracne si impiccò, ma Atena non le permise di morire e la trasformò in ragno, condannandola a filare e a tessere il suo filo.
Oggi potremmo definire Atena una “donna dell’uomo”, proprio una di quelle che non rinunciano alla desinenza maschile per definirsi e che quindi ne hanno interiorizzato il modello, ovviamente vincente in quanto aderente al patriarcato.
Val la pena ricordare che tra le storie che Aracne rappresentò nella sua tela, oltre a quella di Medusa stuprata da Poseidone e la cui testa Atena ha nel suo scudo, spicca in particolare quella di Filomela.
Figlia del re di Atene Pandione, la fanciulla viene invitata dalla sorella Procne, sposata con Tereo, a farle visita, dato che entrambe le sorelle sentivano la mancanza l’una dell’altra.
Tereo ha il compito di accompagnare la giovane Filomela, ma durante il viaggio, già invaghitosi della ragazza, la violenta, e per evitare che lei possa raccontare dello stupro subito, com’è nelle intenzioni di Filomela, le taglia la lingua e la abbandona in un bosco.
Filomela riesce però a costruirsi un rudimentale telaio e a tesservi un arazzo con la rappresentazione della violenza subita.
Il tessuto, attraverso una serva, arriva alla sorella Procne, che presto corre a liberarla.
La vendetta delle sorelle sarà terribile, in quanto Procne ucciderà sua figlio Iti e ne darà le carni come pasto a Tereo.
Alla fine del mito gli dei, impietositi dalla tristissima storia, trasformeranno tutti e tre i personaggi in uccelli; Filomela in usignolo, Procne in rondine e Tereo in upupa, uccello predatore.
Tale mito porta con sé un evidente lato d’ombra, quello delle donne senza voce, rese mute e condannate al silenzio, non rappresentate se non attraverso le testimonianze maschili e loro strumento per ridurre altre donne allo stesso silenzio.
Di nuovo, ci ricorda qualcosa?
Ma si nasconde nella tela ciò che è importante mantenere nella memoria.
Quante volte lo abbiamo fatto nelle pieghe tessute della nostra vita?
La tessitura diventa simbolo di resistenza e resilienza.
Sia nel mito di Aracne che in quello di Filomela la tessitura ha lo scopo simbolico di denunciare i rapporti di dominazione e violenza. Fisica, psicologica, sociale e culturale.
Dovremmo ricordare, come un uncino della memoria, che il racconto di questi miti non ci viene da testi di donna, ma da letteratura maschile, in cui la voce critica e morale del tempo, rinnovatasi fino a noi e ancora dominante, rovescia la tela e tutto il suo senso come fosse un guanto scarlatto.
Ogni testo di donna recuperato, o storia di donna anche solo plausibilmente liberata da tale rovesciamento, è anche il suo corpo.
Come Filomela è la sua tela. (2)
Fino a quando prevarrà il modello di Atena che continuerà a tessere la sconfitta delle donne e del femminile, rimarremo nel suo cono d’ombra, che è puro patriarcato.
E’ ora di tessere la sua e la nostra vera storia.
Un filo d’oro continua ancora a scorrere tra le nostre dita.
Brunella Campea
(1)Carla Lonzi “Sputiamo su Hegel”.
(2)Liberamente tratto da: Brunella Campea “La storia nell’ombra”.