Il corpo femminile – Adele Longo

Gruppo di Artemide e Ifigenia, 150 d.C. ca. – Musei Capitolini, Roma – © Foto di Zeno Colantoni

Il desiderio necessita di un luogo sacro per poter essere, esso trova spazio e parola in una dimensione sacra.

Occorre ritornare a dare autorità al nostro corpo femminile poiché in esso sono custoditi il sacro e il divino. Dare autorità al corpo vuol dire tornare alle origini, alle radici, al corpo della madre per ritrovarci sacre e divine.

Nei tempi preistorici le divinità erano sempre femminili, traevano la loro autorità e potenza dallo stretto legame con la terra, i cicli della natura, dalla maternità che dava loro il carattere dell’immortalità. L’uomo ha basato la sua cultura sulla cancellazione e il disprezzo delle funzioni femminili, la sua religione ha svilito e mortificato il corpo, egli ha sacrificato la vergine presente in ogni (donna). Per sopravvivere l’uomo si è elevato in una trascendenza che è in cielo, sopra di lui, che è puro spirito. Al contrario la trascendenza per noi non può che radicarsi nel corpo, nella terra.

Occorre che torniamo ad abitare il corpo per trovare le nostre origini divine, per vivere e godere della nostra verginità intesa come fedeltà a sé ed al genere femminile. Il sacrificio della figlia vergine ha creato un vuoto, una mancanza di sacralità nel(?) mondo spezzando l’ordine genealogico femminile. Ordine in cui la relazione madre-figlia si fa garante della trasmissione del sacro e del divino. Strappando la figlia alla madre, l’uomo ha posto fine a questa relazione feconda. Separate, l’una dall’altra, impossibilitata alla relazione, la donna si è ritrovata sempre più estraniata da sé, sempre più distante dalle sue radici, dal proprio corpo, dalle proprie origini sacre e divine.

Ifigenia, figlia vergine di Clitemnestra e Agamennone, viene dagli uomini condannata a morte, il suo sacrificio è necessario per garantirsi il predominio. Sua madre cercherà invano di salvarla dopo aver scoperto l’inganno con cui è stata allontanata da lei, ma non ha la forza sufficiente per farlo. Sarà Artemide, dea non sottomessa alla legge del padre, a trarla in salvo dalle mani profane degli uomini, le ridarà la vita facendola divenire sua sacerdotessa.

Anche oggi è così, l’uomo perpetua l’antico rito a garanzia della propria potenza. Per ogni donna la morte arriva per mano d’uomo. Questa morte è smembramento, perdita della parola, del gesto, paralisi interiore ed esteriore, paralisi che in un ordine emancipatorio produce quell’assurda frenesia con cui una donna si muove nel luogo, spazio-tempo dell’altro, per assolvere a tutti i suoi compiti. In questo tipo di morte tutti i pori sono chiusi, non c’è percezione, è come vivere in una campana di vetro. Ma a volte basta un sassolino a frantumare la campana di vetro. Clarice Lispector nei suoi racconti Legami Familiari riesce a darci una descrizione efficace di quello che accade. Piccoli eventi, particolari apparentemente insignificanti servono a smascherare la realtà, a spezzare quella continuità che rende la vita “armonica”, si insinua il dubbio, emerge la fatica, non vissuta come tale, di cadenzare la propria giornata con dei ritmi che, proprio perché non ci appartengono, hanno bisogno di essere regolati e tenuti sotto controllo. Se una donna vuole esistere, sopravvivere nel mondo patriarcale deve entrare nella legge del padre, non c’è posto per la sua differenza.

Il corpo dà i primi segnali del disagio. Un acuto senso di dolore, feroce perché arriva a tradimento, spezza l’ “ordine” faticosamente costruito, fa cadere in un abisso vertiginoso. In realtà esso è il primo sintomo della rinascita, è un primo bagliore, la prima luce ancora fioca della vita. Possiamo anche far finta di non aver visto e sentito nulla ma il corpo urge, e quello che la ragione riesce a controllare non trova spazio, accoglienza nel corpo. Inizia a poco a poco a farsi strada il desiderio di vedere oltre e si va alla ricerca di un’Altra, di Altre che vivono o hanno vissuto la stessa esperienza. E’ il corpo che ti guida verso di loro, è un atto di fede nei confronti del corpo; seguire i suoi segnali significa dargli autorità e forza, darsi autorità e forza. Se penso ai nostri primi incontri, non è stato certo un discorso razionale, culturale a portarci sempre di più l’una verso l’altra, abbiamo seguito un segnale, una traccia che per noi voleva dire che quello era il luogo, lo spazio-tempo per essere. Nessuna regola, nessun obbligo ci portava lì, ma solo il desiderio e la necessità di chi sta compiendo lo stesso percorso per creare un simbolico femminile. Chi ha già fatto il percorso ti guida così come un bastone guida l’esploratore nella foresta, gli permette di ritrovare il sentiero nascosto da una fitta e selvaggia vegetazione.

L’incontro tra donne è un rito, non c’è sacrificio ma elevazione, il fine è la celebrazione della sacralità del corpo femminile.

Si affronta di nuovo la morte, la discesa agli inferi, ma questa morte restituisce la vita, è un ritorno alle origini, toglie uno ad uno i veli che offuscano la verità. Il viaggio viene fatto da sole, individualmente, ma non in solitudine, l’Altra/e garantiscono il luogo del ritorno. Un luogo in cui colei che ritorna possa dare testimonianza della sua rinascita, metamorfosi ed elevazione a donna sacra e divina. Testimonianza fondamentale per chi si accinge ad intraprendere lo stesso cammino.

Adele Longo IL CORPO FEMMINILE Aprile 1989