Maria – Elvia Franco

inchiesta-85-86-1989

MARIA il bellissimo testo di Elvia Franco rimane importante per noi, per alcune uno degli elementi aggreganti di questo luogo virtuale; lo ripubblichiamo con una particolare e significativa modifica: il testo questa volta è accompagnato dall’immagine che vedete qui e che l’autrice avrebbe voluto quando nel 1989 uscì la prima volta sul numero 85-86 di INCHIESTA, numero che portava il titolo IL DIVINO CONCEPITO DA NOI a cura di Luce Irigaray.
Elvia vide in questa immagine conosciuta come Visitazione ciò che più era vicino al suo testo; ci piace pensare di dare spazio ad una riunificazione che dopo 30 anni esatti salda pensiero e immagine per parlare un’unica lingua, la stessa che fu anche delle nostre antenate.

Visitazione Duomo di Cividale
Visitazione. Particolare Altare di Ratchis (arte Longobarda) Museo cristiano e del Tesoro del Duomo di Cividale. Ph (Elvia Franco)

Maria

di Elvia Franco
Maria nacque dal seno sterile di Anna.
Le leggi degli uomini avevano decretato che quel seno sarebbe stato inghiottito dalla notte che non conosce discendenze.
Anna generò Maria. E fu l’imprinting della madre a posarsi sulla figlia e a consegnarla alla vita divina.
Venuta al mondo, Maria apprese all’istante che le leggi degli uomini erano bugiarde.
Diventò grande.
Poté sognare il Messia provenire da lei.
Il sogno divenne desiderio bruciante, febbre, necessità.
Trasmutò se stesso in uno sguardo di conoscenza.
Con pena infinita, Maria gettò alle spalle una visione del mondo, capì a modo suo le parole dei profeti che annunciavano una filiazione verginale, agì e fu.
Ma doveva generare un’idea, mostrarla e sentire le grida del sì.
Dovevano compiersi un’Immacolata Concezione, un’Annunciazione e un Magnificat che esaltassero l’irruzione nel mondo del pensiero femminile.
Era necessario che nel culmine del suo ardore Maria diventasse due.
L’Immacolata Concezione
Il pensiero di una donna che matura un’idea immacolata tocca nel più profondo del cuore e apre l’altra donna alla libertà e all’avventura.
La bellezza divina di un’Immacolata Concezione femminile restituisce ad ogni donna l’entusiasmo purissimo dell’infanzia,
i sogni di primavera dell’adolescenza, quando la vita pare promettere una strana felicità infinita e il profumo delle cose entra nell’anima, ubriacandola di gioia.
Ma, senza un’idea certa dei luoghi dell’esistente che vanno abitati, quegli annunci di primavera si rinchiudono in se stessi e spariscono inesorabilmente nel nulla.
La carne di Maria, eterna memoria, fu avvertita dalla sua coscienza, che capì la verità.
La verità divina era il duale, che è accennato dalla cosa che c’è per esplodere in quella che deve venire.
Lasciata presagire nel corpo femminile, la dualità esplode nel pensiero femminile.
La verità genera la vita. E la vuole a sua immagine e somiglianza.
La vuole; perché il nulla non le assomiglia.
Se le fosse piaciuto, sarebbe rimasta una, immobile, autosufficiente, con il nulla intorno.
Se avesse potuto stare da sola, sarebbe rimasta sola, a rispecchiarsi nel nulla, a specchiare il nulla.
La verità temeva il nulla, perché il nulla poteva annullarla.
Poteva ridurla a sua immagine e somiglianza.
La verità aveva paura del nulla, perché il nulla non confermava il suo essere la verità.
Allora divenne due e fu relazione.
Vinse il nulla.
Capì la sua forza.
E come relazione concreta, la verità è.
Fu struttura, perciò vita vera.
Fu relazione, perciò realtà.
La cosa, la vita, il soggetto vengono dalla dualità. Altrimenti non vengono. Oppure vanno nel nulla.
Per non cadere nell’immagine del nulla la verità generò il due.
Fu madre.
Da quell’origine, la vita, nasce sempre opponendosi al nulla; ogni volta che avverte l’orrore del nulla.
E lo avverte perché tende a potenziare l’avventura duale e sfociare nel divino.
E quando sorge la nuova vita sollecita la vita nuova;
la fa venire a propria immagine e somiglianza: vita di verità,
purissima strada, aperta ai domani.
Nel cosmo maturarono tante cose: la luce, i cieli, le stelle, la terra, i fiori e tutto ciò che vive producendo da sé il seme della somiglianza.
Da lontano, venne la donna.
Indicò il suo futuro, quando poté annunciare di essere colei che, per essere, doveva sentirsi nella sua simile. Quando poté sconfiggere il nulla e dirsi, dovette chiamare la carne e il sangue di colei che portava la sua immagine.
Se quella carne e quel sangue dormivano ancora, dovette risvegliarli con la sua carne e il suo sangue.
Assunti e chiariti nella parola.
Fu così che Maria andò da Elisabetta.
Da lontano, giunse l’uomo.
Mostrò il suo regno, quando si presentò come colui che per vivere doveva sentirsi nel suo simile.
Quando capì la verità, chiamò la carne e il sangue di colui che portava la sua immagine.
Se non c’era doveva allevarlo. Doveva dargli la propria carne e il proprio sangue.
Il pane e il vino della parola.
Se l’altro non ne avesse voluto, anche lui sarebbe morto.
L’Annunciazione
La comprensione della verità rese vergine Maria.
Ma la verità non poteva sussistere da sola e corse a cercare l’abbraccio di uno sguardo profondo.
L’ «immacolata concezione» obbligò Maria a mostrarsi ad un’altra donna.
I vangeli ci dicono che questa donna fu Elisabetta e che Maria corse da lei.
Nessuno capì Maria, se non Elisabetta.
Gesù vide l’affidamento di Maria con Elisabetta, e fu il Messia:
l’uomo duale, il maschio divino, dal momento che vide due donne capaci di credersi, tese a viversi nel pensiero nascente.
Alcune tracce del lavorio geniale di Maria si trovano nell’Annunciazione di Luca.
Lei, che voleva il Messia e una donna che le credesse, aveva bisogno di un segno di conferma per iniziare la sua avventura.
Fu sola e angosciata per tutto il tempo di formazione della certezza.
Risolse i suoi dubbi e si mosse, quando, maturata l’idea, le fu annunciato il suo valore.
Luca ci parla dell’angelo Gabriele. (Che vuol dire forza generativa di Dio, di «Io sono».)
Nulla impedisce di pensare che l’angelo Gabriele sia una formazione endopsichica di Maria, precisamente il suo nucleo psichico ormai convinto. Staccandosi da lei e apparendole nella veste di un messaggero, aveva il compito di mettere Maria nelle condizioni di agire le sue convinzioni, e di liberarla da ogni dubbio, angoscia e incertezza.
L’angelo venne da lei con parole rassicuranti:
l’ansia di verificarne il valore, insieme alla robustezza della propria coscienza.
Maria doveva rendersi conto che l’apertura duale portata da lei nel mondo avrebbe mutato dalle radici tutta una visione della vita.
Anche la legge e i profeti, ricevendo un’interpretazione femminile, lasciavano vedere l’immagine di un Dio somigliante a un corpo di donna, che da sempre alludeva al duale, indicava il duale … ,
la concretizzazione del suo sapere avrebbe scosso le fondamenta di tutte le conoscenze, perché tutte le conoscenze dovevano essere riviste alla luce del Dio duale, tutti i rapporti della vita quotidiana avrebbero subito una profondissima trasformazione, le pratiche politiche correnti sarebbero di colpo invecchiate, Maria avrebbe gettato delle basi sicure per la costruzione di un mondo nuovo.
Era un’enormità.
E il peso del dubbio si schiacciava su di lei.
Com’era possibile?
–  Non conosco uomo. –
Nel mondo degli uomini, in nessuno dei loro registri, era scritto che una donna poteva mostrare a un figlio la struttura della verità, mostrando a lui, con la vita reale, la via concreta che ogni esistente deve battere per farsi davvero esistente.
A lei era forse concesso di dimorare nella luce dell’impensato?
–  Non conosco uomo. –
Allora l’angelo pronunciò le parole definitive:
–  Lo spirito santo scenderà su di te, su te stenderà la sua ombra la potenza dell’Altissimo … Vedi anche Elisabetta, che tutti dicevano sterile, ha concepito un figlio … nulla è impossibile a Dio. –
L’angelo seppe rassicurarla su un punto di estrema importanza.
Maria poteva avere la certezza di muoversi in spirito di verità, di poter cioè trovare dentro di sé quegli elementi di sapienza che soli orientano e sostengono la vita. Ebbe sicurezza sul valore delle sue strutture cognitive. Sul valore del suo pensiero e delle forme di relazione che con quel pensiero andavano inventate.
Allore disse: – Eccomi. –
E in quell’alba nuova si abbandonò alla verità, piena di grazia.
Il divino Magnificat
Allora Maria corse da Elisabetta, perché voleva lei per mostrarsi.
Voleva lei.
Voleva lei, perché il suo pensiero cercava il sostegno di una mente che lo vedesse e di un cuore che lo sentisse. La verità di Maria la spingeva a cercare la sua simile. Andò da Elisabetta, donna come lei. Come lei in attesa di un bambino, che proveniva, come il suo, dai campi di luce, stesi oltre il linguaggio.
Corse ad Ain Karim, perché attendeva il riconoscimento di quella donna.
Corse ad Ain Karim, per sentirsi davvero, nella rispondenza dell’altra.
Corse ad Ain Karim, per impedire il collasso della sua identità.
Forse, durante il viaggio, un ultimo dubbio lacerante.
E se Elisabetta non rispondeva? E se non avesse capito? E se non fosse stata in grado di intendere la necessità, dell’essere due donne che si credono: questa struttura incarnata della verità,
questa officina del sogno femminile?
Estremo dubbio. Dubbio terribile.
Dubbio che si abbatte sulla struttura stessa dell’esistente e lascia intravedere l’orrore dei luoghi che tornano al nulla.
E dubbio, che, intrecciato all’autorevolezza di un progetto, spiega la sua ansia di raggiungere presto la casa di Elisabetta.
Ain Karirn fu il trionfo di Maria.
Là si compiva quello che il pensiero le aveva indicato. La Visitazione di Luca mette in luce con grande semplicità e potenza l’incontro fra le due donne.
Maria salutò Elisabetta e le parlò.
Elisabetta le credette.
E, aprendo con lei in quell’istante il futuro, fu travolta da un piacere intensissimo, tanto che il suo bambino le sussultò in grembo.
Elisabetta seppe in se stessa che Maria stava dicendo la verità.
Alla vista di quella giovane donna, infatti, si sentì piena di Spirito Santo, quell’energia divina che sa incontrare, riconoscere e legarsi all’energia divina che le viene incontro.
Nella gioia infinita, Elisabetta si lasciò coinvolgere dalla parola di Maria con la potenza di chi sa coltivare la propria spontaneità e non ha bisogno di chiedere garanzie esterne per credere.
Elisabetta permise alla potenza dell’altra di prenderla e di legarla a sé indissolubilmente, in quell’istante di verità, che spalancava le porte all’eterno presente.
Per questo poté gridare le parole potenti del riconoscimento senza riserve:
–  Benedetta tu fra le donne. –
E aggiungere forte:
–  E benedetto il frutto del tuo seno. –
E chiedere, nell’esultanza che conosce già la risposta:
–  A che debbo che la madre del mio Signore venga a me? Nell’estasi divina della creazione del rapporto, la comprensione di Elisabetta spezzava la barriera del linguaggio e si avventurava nell’inaudito della sua lingua, riconoscendo in quella giovane donna la madre di «Io sono»: colei che era capace di generare
l’attualità eterna.
Colei che era capace di generare le cose che stavano accadendo lì. A casa sua.
Elisabetta volle rimandare ancora e ancora a Maria le parole della sua felicità sconvolgente. Le disse:
– Ecco, appena la voce del tuo saluto è giunta ai miei orecchi, il bambino ha esultato di gioia nel mio grembo. – E la chiamò beata, perché Maria era la vergine, che aveva creduto nell’adempimento delle parole “Io sono”, quelle che erano la sua coscienza di donna libera. Allora Maria gridò. Gridò la sua vittoria nell’estasi del Magnificat.
“L’anima mia magnifica il Signore, il mio spirito esulta in Dio, mio Salvatore
perché ha guardato l’umiltà della sua serva.
“D’ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata”.
Tutto è avvenuto come lei voleva; nell’esultanza della relazione femminile generata e universalizzata in quel momento, Maria è di fronte ad Elisabetta, e adora.
Lucida e solenne, conosce perfettamente il valore di ciò che è stato fatto e testimonia la via che le ha indicato in Ain Karirn il luogo del suo trionfo.
La sua anima e il suo spirito esultano e hanno ragione. Una ragione che può essere mostrata d’ora innanzi al mondo intero.
La sua verginità l’ha guidata lì, quella verginità femminile che è cosa umile e disprezzata da tutti, perché le sue parole non sono iscritte nel libro dei sapienti. Ma quando si levano oscure nella profondità della carne, si sa che lacereranno la storia.
Ascoltandole e mettendosi al loro servizio, Maria ha preceduto tutte le donne ed è corsa da Elisabetta, perché aveva bisogno di lei. Come dell’aria, come dell’acqua, come del cibo.
Quelle parole ora, nel sole, sono il divino Magnificat, con cui lei si dice e si ridice per la beatitudine sua e di Elisabetta.
E per la gloria del sesso femminile, che in quel momento ha trasceso la biologia e costruito La Struttura, che rende divine (ossia terribilmente reali) le donne.
Perciò Maria può gridare:
«D’ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata».
Quindi esprime un giudizio di condanna per quelli che nel periodo dolorosissimo della maturazione l’hanno ingiuriata con le esibizioni della loro potenza, piena di viltà, della loro saccenteria, rumorosissima e fumosa, e della loro indifferenza mortale.
Ed eleva a valore assoluto l’umiltà che sa rivolgere il suo sguardo verso il primo annuncio di un mondo che attende, chiama e vuole abitanti.
Eleva la fame che si protende verso quel mondo e cerca il pane della verità.
Così Maria grida la lode di quel Dio che «ha spiegato la potenza del suo braccio, ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore;
ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili,
ha ricolmato di beni gli affamati, e ha rimandato i ricchi a mani vuote … »
Il Magnificat, nel quale Maria sa di riferirsi a se stessa, si chiude lodando Dio, perché non annuncia le cose invano; la sua voce, quando sorge, si avvera e spalanca il futuro e stende nuovi cieli sopra terre nuove e discende nelle esistenze delle generazioni che verranno.
Per sempre.
Maria ed Elisabetta sono l’autorità.
Maria ed Elisabetta sono la verità.
Il Messia scenderà nel Magnificat, prima che nella legge e nei profeti, per cogliere le radici della verità
e conoscere ciò che doveva essere fatto.
Maria restò con Elisabetta per circa tre mesi.
Poi tornò a casa sua.
Ancora due righe
Sono passate alcune settimane da quando ho scritto questi fogli. Da allora ho.pensato spesso a Maria e nella mia mente lei resta così, come è nello scritto.
E mentre il quotidiano, come un rullo compressore, appiattisce le forme femminili sopra l’asfalto delle città e fa deserti i luoghi delle generazioni, io rimango prigioniera della primavera di Ain Karim.
Forse un giorno andrò là a pregare.
C’è qualcosa in questo scritto che si può ancora aprire; un bocciolo chiuso che il tepore ha fatto esplodere.
Questi fogli parlano di Maria, ma attraverso di lei mostrano la fioritura del sesso femminile.
Bisogna volerla e colonizzare il luogo divino, perché è il solo concreto e pieno.
Questi fogli parlano di Maria.
Ma non dicono che Maria ha sognato l’identità attraverso un figlio divino.
Dicono l’audacia della sua intelligenza che ha compreso le leggi bugiarde degli uomini.
Dicono che lei maturò l’idea di un Messia che non sarebbe mai arrivato dalla stirpe di Davide, ma da due donne che si credevano, che erano giunte a sentirsi nella verità compresa, e che per questa via divina avevano costruito la loro realtà.
E quello che conta è proprio questo: l’acume intuitivo e caldo di Maria, e la risposta di Elisabetta che ha detto di sì.
Questa è la cosa divina: il loro essere consustanziato dalla relazione, che permette loro di conoscere che l’una avrà sempre nell’altra il suo appoggio e il suo fondamento.
E in questo legame, l’una e J’altra si fanno uniche, libere, autonome e profondamente svincolate dai legami con il mondo degli uomini.
Il Messia è il frutto del loro incontro, per questo anche lui è completamente nuovo, completamente diverso, profondo e bello.
Non poteva essere che così.
Ma questo scritto non dice che Maria ebbe l’identità attraverso il suo essere la madre di Gesù.
Questo scritto è lontanissimo da questa affermazione. Perché Maria ebbe l’identità da Elisabetta.
Quando Elisabetta disse sì, Maria esistette, esistette davvero.
Fu allora che lei portò il cielo in terra.
Fu allora che i sogni, le viste, i desideri ardenti impregnarono veramente la sua materialità corporea, divennero il suo io operante.
Senza Elisabetta la sua intelligenza sarebbe rimasta cielo. Nel cielo.
E questi fogli vogliono proprio dire che l’identità di una donna proviene da un’altra donna che sa, e che può, dire di SÌ.
Senza questa cosa, lo spirito femminile si dibatte, sbiadisce, si frammenta, decade, viene buttato fuori dalla sua differenza sessuale, non ha pace: lo vediamo ogni giorno. Questi fogli vogliono ancora dire che l’identità femminile si forma sempre così: un desiderio che si profila e un’altra donna che lo sa cogliere.
In questo modo, si combinano anche insieme quei concetti filosofici dai noiosissimi nomi di pluralità e universalità.
I desideri-passioni sono infiniti plurali, basta guardare un campo fiorito, per vedere l’infinita varietà di espressione delle cose esistenti, i desideri sono sempre nuovi e ricchi, tutti d’un valore assoluto.
Non c’è nessuna di noi che possa limitare i desideri delle donne, non c’è nessuna a cui sia consentito di dire che un desiderio vale ed un altro non vale.
Il desiderio è.
Con questo spirito bisogna guardare alla maternità di Maria.
Ma la via che porta al compimento è una sola, ed è nello sguardo di una donna che quel desiderio avvalora.
E nel viversi duale, per cui diviene motivo di vita l’esserci dell’altra, che è grazie a noi e lo si sa. E lo sa il mondo.
Il soggetto femminile allora nasce e si afferma nella relazione, perché è nella relazione che conquista la concretezza della sua identità.
Forse queste cose parlano solamente alle donne che sono nate alla vita del pensiero (che è la formulazione del desiderio), quelle che hanno trasceso l’interpretazione comune della biologia maschile.
Ma queste cose sono le donne.
Questo scritto dice anche sui modi della trasmissione culturale femminile: sulla genealogia della differenza sessuale.
Il contenuto di un desiderio e il pensiero che lo definisce diffondono se stessi non dalla posizione del soggetto che si fa da sé, che non esiste (non è mai esistito e non esisterà mai), ma vanno dalle altre, e nel mondo, a partire dalla relazione con una donna concreta, il cui sguardo afferra lo spirito che emerge dall’altra e non lo lascia scomparire.
Quella donna diventa la condizione della genealogia: la sua pietra angolare.
Elisabetta fu tale per Maria.
Per questo chi ha pensato alla frase «tra me e il mondo, un ‘altra donna», ha detto il vero. Con parole semplici ha detto la struttura della genealogia femminile. Eludendola, una donna perde se stessa e il mondo.
Va verso il «non sono».
Questo lo constatiamo in ogni momento, dappertutto. Ma ciò che entra nella genealogia non è soltanto il profilo di un desiderio, ma anche e soprattutto la forma del rapporto che quel desiderio rende possibile.
Viene tramandata la dualità, che è la struttura nella quale la donna matura il suo destino.
Infine questo scritto dà un senso anche all’amore e all’affetto, che non sono fatti romantici o formule rinsecchite, ma sono invece il sentimento della necessità dell’altra, senza la quale non è possibile dire «Io».
Tutte queste cose sono per me Maria ed Elisabetta, ma ancora di più il nostro-mio presente, aperto a un’avventura faticosamente stupenda.
Intanto i carri armati continuano a passare sotto casa mia. Le donne vengono maciullate e i luoghi di culto resi deserti.
Ma la madre, la figlia e la verità non cesseranno per questo di essere meno necessarie.
Elvia Franco
Udine, 13 marzo 1988.
INCHIESTA – LUGLIO-DICEMBRE 1989
Per il blog di Elvia Franco: https://francoelvia.wordpress.com/

Una piccola lettura (a) di parte

Quando Elvia mi inviò l’immagine della Visitazione del Duomo di Cividale mi colpì subito il valore simbolico e dunque sacro della rappresentazione; simbolica la gerarchia dimensionale dei personaggi con Maria che ha proporzioni maggiori rispetto alla cugina Elisabetta; simbolici le sproporzioni degli arti e gli occhi innaturali a suggerire letture che devono andare oltre la descrizione scultorea; vidi subito quella forma creata dalle braccia allacciate delle due donne e riconobbi il simbolo dell’infinito in quell’abbraccio che per me rivela il messaggio dell’icona: due donne, unite nella creazione e conservazione della vita sono l’eternità, il ciclo della vita è ciò che rende sacra la vita; lo vediamo confermato dall’Albero della Vita, rappresentato accanto a loro. Gli occhi profondi come pozzi, appartengono a chi “è in grado di vedere”, vedere l’una dell’Altra, l’una nell’Altra.
Le due donne e l’albero sono all’interno di uno spazio sacro: il momento è sacro perché è l’attimo esatto in cui Maria, segnata sulla fronte è riconosciuta da Elisabetta come colei che metterà al mondo il divino e lo farà grazie al riconoscimento dell’altra donna.
Le loro bocche piegate all’ingiù: sono tristi? non possono parlare di ciò che loro, e solo loro sanno e non possono rivelare? tristi perché non saranno credute? Certamente viene da immaginare la paura che entrambe in questo gesto consolatorio, avrebbero voluto allontanare. Erano in procinto di sconvolgere il mondo del reale e più nulla sarebbe stato lo stesso…
Alessandra de Nardis

La dea doppia, un’icona del passato che esprime i poli duali della nostra natura, vita e morte, luce e tenebra; scolpite nella pietra, nell’osso, nell’argilla, dipinte sui muri o forgiate come vasi, queste immagini di donne si generano e rinnovano l’un l’altra esortandoci a ripensare quanto ha di prezioso la nostra condizione biologica e ad attingere alla potente corrente sotterranea dell’energia femminile che fluisce dai tempi più antichi che non ha mai smesso di accompagnarci.

Comments are closed.