Rudh, la vera storia di Cappuccetto Rosso – Alessandra de Nardis

Il vento portava l’odore degli animali dalle praterie basse, mischiato a quello più acre della terra ancora umida sotto le felci. Rudh sedeva accovacciata vicino al bordo del riparo roccioso, le mani sporche di ocra rossa e cenere. Il gruppo era lì da sei lune, avevano seguito le mandrie delle “creature dalle corna come rami” fino alla gola del fiume e si erano stabiliti nel luogo che gli adulti chiamavano “il margine”.

La roccia sporgeva sopra un vuoto silenzioso, sorvegliato da grandi querce dai rami contorti. Oltre, cominciava la foresta. Non quella dei legni giovani e delle bacche facili da trovare, ma quella più profonda, dove si diceva che gli spiriti camminassero accanto agli animali, e dove viveva la sciamana.
Rudh non l’aveva mai vista da vicino, solo intravista una volta, una figura curva coperta di pelli, con i capelli impastati di terra e piume. Si diceva che parlasse coi lupi. Qualcuno, una volta, disse che era stata lei a fermare la malattia che aveva preso i bambini l’inverno prima.

Quella sera, quando tornarono dalla caccia, una delle donne adulte – con gli occhi scuri come l’ombra sotto le rocce – venne verso di lei. Non la chiamò per nome. Disse solo:
«Ti cerca.»

Nessuno domandò chi.
Rudh capì.

La sciamana si stava spegnendo. Aveva mandato a chiamare. E lei, proprio lei, avrebbe dovuto andare.
Non ci fu un rifiuto, ma nemmeno un assenso. Come spesso accadeva nel gruppo, le cose avvenivano come le stagioni, senza spiegazione, eppure senza dubbio.

Camminò per ore, seguendo sentieri che non aveva mai percorso. All’inizio la foresta la accolse con rumori familiari: fruscii di ali, bramiti lontani delle “creature dalle corna come rami”. Poi cominciò a cambiare. Le radici si sollevavano come artigli, le foglie cadevano anche se non era ancora la stagione giusta. Sembrava che gli alberi si piegassero al suo passaggio.

Quando arrivò alla capanna, non fu sorpresa nel trovarvi accanto un lupo. Immobile, il muso rivolto verso di lei, il pelo grigio chiazzato di vecchiaia.

Rudh lo guardò negli occhi. E per un istante, tutto si fece chiaro. Quel lupo – ne era certa – l’aveva vista nei sogni. Era sempre stato lì.
La sciamana stava stesa su un letto di muschio e pellicce. Non parlò subito. Non chiese niente. Guardò Rudh a lungo, poi indicò il fuoco che bruciava basso. Sopra, appesa a un ramo, una collana di denti. Un dente – il più grande – era scolpito con segni che sembravano artigli.

La vecchia parlò con voce ruvida come corteccia bruciata:

«Tre volte ti ho vista. Una alla nascita. Una mentre correvi nella pioggia senza paura. E ora. Sei venuta.»

Rudh non rispose. Non serviva. La vecchia chiuse gli occhi. Dormì, o forse entrò in un altro tempo.

Quella notte, Rudh rimase sveglia. Il lupo non si mosse.

Al rifugio chiamato il margine la donna adulta – anche lei seduta vicino al fuoco, restò silenziosa tutta la notte – sembrava sapere.
Forse era la madre. O forse no. Ma una cosa era certa: anche lei portava al collo una collana simile, con un dente inciso con segni che sembravano artigli.

Tre donne. Una che si spegne. Una che resta. Una che inizia.

Nessuno parlava di destino. Al tempo, non esistevano parole per questo.

Ma nella foresta, il vento cominciò a ululare.

E il lupo, per la prima volta, abbassò il muso in segno di riconoscimento.

Il mattino arrivò senza sole. Solo una luce fredda che si infilava tra i rami alti, disegnando ombre come lame. Rudh era rimasta sveglia tutta la notte, il corpo fermo, ma la mente agitata. Aveva ascoltato i suoni del bosco come se potessero parlarle. Il crepitio del fuoco, il respiro della sciamana, i movimenti del lupo. Tutto sembrava parte di un unico battito, lento, profondo.

All’alba, la vecchia si sollevò appena, come se sapesse che era il momento. Il viso scavato dalla vecchiaia sembrava scolpito nella pietra. Prese qualcosa da sotto le pelli: una piccola sacca fatta di stomaco animale essiccato. La porse a Rudh senza dire nulla.

Dentro c’erano frammenti: una piuma rossa, una pietra nera tagliente e liscia, un osso bianco inciso con linee che parevano seguire il disegno del vento. Oggetti senza significato apparente. Ma Rudh comprese.

Non doveva capire con la mente.

Li toccò uno ad uno, li sentì sotto la pelle, come se le appartenessero da sempre. La sciamana pronunciò parole antiche, non più usate nei discorsi del campo. Erano suoni spezzati, forse imitazioni di versi animali o echi del mondo sotterraneo. Poi prese un po’ di ocra dalla ciotola di legno e, con la punta delle dita, tracciò segni sul volto della giovane.

Linee che partivano dagli occhi e scendevano verso la gola. Altre che si allungavano sulle mani, lungo le dita. Ultima, una spirale sul ventre, tra il pube e l’ombelico.

Era il segno della trasformazione. Del sangue che cambia la carne.

Parlò poi per l’ultima volta.

«Non sarai guida. Non sarai figlia. Non sarai cacciatrice. Sarai soglia. Tra ciò che si vede e ciò che è. Il lupo sa.» cercò sotto le pellicce un ultimo oggetto: un cappuccio fatto di conchiglie intrecciate e ricoperte di ocra rossa scura. Antico, consumato, ma ancora forte nell’odore e nel colore.

Lo porse alla giovane donna che lo tenne senza indossarlo.

Poi si stese. E non si mosse più.

Il lupo la seguì quando lasciò la capanna, camminando un passo dietro di lei. Non si voltò mai.

Il giorno della morte non fu giorno di lutto. Nella cultura del gruppo, la morte non separava: trasmutava.

Quando tornò al riparo roccioso, nessuno parlò. Le persone la guardarono come si guarda il fuoco: con rispetto e timore, ma anche con attesa. Qualcuno aveva già intuito. I bambini le si fecero vicini, incuriositi. Gli uomini le cedettero lo spazio vicino al fuoco, quello che, nei giorni sacri, era lasciato libero per gli antenati. La donna adulta alzò lo sguardo verso Rudh e, senza spiegazioni, le affidò il coltello cerimoniale. Non serviva a cacciare. Era usato solo per i rituali: tagliare erbe, incidere segni, tracciare limiti.

Rudh lo prese senza esitare.

Passarono giorni, e poi lune. La nuova stagione cominciò a mutare i colori della valle. Rudh imparò a stare nella soglia. Dormiva poco. Sognava molto. Raccolse semi che nessuno mangiava, parlò con pietre che le indicavano i passaggi, si fermò a lungo vicino ai crani degli animali cacciati, ascoltando.

Una notte, in sogno, il lupo la portò sotto terra, in una caverna piena di pitture. Non c’erano parole, solo immagini: mani aperte, segni del cielo di notte, un bisonte ferito che non cadeva mai, mandrie di creature pronte a tornare in superficie. Quando si svegliò, sapeva cosa fare.

Con la pietra nera tagliente e liscia tracciò sul soffitto basso del riparo, là dove nessuno aveva mai disegnato, il segno da cui tutto nasce.

Quel giorno, gli anziani le offrirono carne senza osso. Segno che il gruppo la riconosceva. Era diventata ciò che era: non più giovane, non ancora vecchia. Una che cammina tra i mondi.

Il lupo restò. A volte spariva, ma tornava sempre. Nessuno osava scacciarlo.

Era il segno.

Che la linea invisibile continuava.

Quando la prima neve cominciò a coprire la valle, il gruppo si preparò alla discesa. Le caverne più profonde, verso il sud, avrebbero offerto rifugio per i lunghi mesi bianchi. Le mandrie si erano ormai spostate, gli uccelli partiti, i bambini dormivano stretti alle madri.

Rudh osservava tutto, ma da distante. Non perché si fosse separata, ma perché era cambiata la distanza stessa tra lei e il mondo. Sentiva le cose accadere un attimo prima che avvenissero. Sapeva che la donna adulta – la stessa che l’aveva mandata dalla sciamana – stava per partorire. Sapeva che uno degli uomini non sarebbe arrivato alla prossima stagione.

E sapeva che il tempo era venuto.

Non bastava essere stata scelta. Non bastava essere accettata. Perché ogni passaggio, anche se già iniziato, doveva essere completato.

E il completamento avveniva nel silenzio.

La notte designata fu la più lunga dell’anno.

Il gruppo accese fuochi piccoli, senza parola. Solo i tamburi – pelli tese su cornici d’osso – parlavano. I bambini furono portati a dormire. Gli anziani si sedettero a cerchio. Rudh ricevette dalle mani della donna adulta un mantello di pelli cucite: non era nuovo. Era quello della sciamana. Ancora impregnato del suo odore, ancora segnato di ocra, grasso e fumo.

Rudh lo indossò.

Uscì dal cerchio e si incamminò da sola verso la gola, là dove il fiume scompariva nel ventre della terra. Il lupo la seguiva.

Camminarono ore, forse solo minuti. Il tempo si piegava in quei luoghi.

Quando arrivarono all’ingresso della caverna, il cielo era pieno di stelle.

Rudh entrò. Il lupo rimase all’ingresso.

Dentro, il mondo si faceva pietra. L’umidità cadeva in gocce lente. Il silenzio era così profondo da farsi corpo. La giovane avanzò con passo leggero, riconoscendo i segni sulle pareti. Erano lì da prima del suo tempo. Animali, vulve, mani, segni.

Indossò il cappuccio di ocra rossa e sedette davanti a una grande lastra, nuda, ancora mai toccata.

E allora, dal sacchetto, prese l’ocra e il carbone. Con dita veloci, tracciò ciò che aveva sognato: tre donne, i corpi appena accennati ma i ventri gonfi, in trasformazione, forse per diventare animali.

Poi, con la lama del coltello, si incise leggermente il palmo. Non per dolore, ma per segnare. Impresse la sua mano sulla pietra, sopra le tre figure.

Il passaggio era compiuto.

Quando tornò, l’alba stava appena nascendo. Il gruppo era ancora raccolto intorno al fuoco, in silenzio. Nessuno le parlò. Ma si aprirono per lasciarla passare.

Si sedette. Il lupo si accovacciò accanto a lei.

Ora era la soglia.

Il punto tra ciò che è e ciò che diventa.

Il cerchio si era chiuso.

Ma il cammino – quello vero – era appena cominciato.

*Rudh: probabile radice pre-indoeuropea della parola “rosso”