Vivevano al pari di Dèi, con l’animo privo di sofferenza (…)
E ogni sorta di beni era fra loro: la Terra datrice di spelta
da sé frutti in abbondanza porgeva; e benevoli e miti
le opere fra sé ripartivano, tra molte gioie[1].
Sin dagli albori della nostra attuale forma di civiltà, il motivo del ricordo sbiadito di una civiltà perduta, superiore in cultura e armonia, ha continuato a ricorrere nelle forme più diverse, soprattutto nei momenti di cosiddetta “decadenza”, ovvero in quei momenti in cui il meccanismo iniquo di sopraffazione su cui la nostra società si fonda in maniera strutturale conduce inevitabilmente a crisi, a periodi, cioè, in cui la guerra, la fame e la privazione, che sono caratteristica imprescindibile di questo sistema, giungono a livelli intollerabili. Proprio in questi momenti, tale motivo mitologico acquista nuova forza, portato avanti da persone che, pur nascendo in questa società, non riescono a convincersi che la nostra forma di civiltà sia davvero l’unica possibile.
Le spiegazioni della storia ufficiale, diffuse nelle opere manualistiche, sono di solito di tipo “psicoanalitico”, nel senso che attribuiscono il ricorrere di tale mito a una necessità psicologica dell’individuo insoddisfatto e impotente in periodi storici burrascosi: un’autoillusione, dunque.
Si perpetua così l’assunto hobbesiano della “malvagità” della natura umana, dell’homo homini lupus, della guerra di tutti contro tutti [2], che legittima la natura coercitiva dei sistemi statali moderni e proietta nell’orizzonte fumoso e triste dell'”utopia”, del Nessun Luogo (e nessun tempo), la vita di pace, di concordia e armonia con la Natura che pure da sempre tante donne e tanti uomini continuano a desiderare e a sentire come l’unico modo di vivere in maniera sana il nostro passaggio su questa Terra.
Una riflessione sul tema ricorrente delle civiltà perdute può sembrare una questione marginale, ma non lo è: lo dimostra il ricorrere di tale tema nella storiografia amatoriale. Oggi, come è avvenuto molte volte nella storia del patriarcato, ci troviamo in uno di quei momenti di crisi, nel quale lo squilibrio e la violenza strutturale del sistema si manifestano in maniera particolarmente evidente. Non sorprende, perciò, che il tema delle civiltà perdute trovi spazio in diversi canali della riflessione storica non ufficiale, tanto che si può addirittura parlare, a questo punto, di una sorta di business letterario fondato sulla sete dello spaesato “cittadino globale” di lasciarsi trasportare in mondi diversi, capaci di dare un senso al diffuso sentimento di non-appartenenza e di alienazione che la società attuale produce, un luogo dove ritrovare il “radicamento” che l’anima desidera e che il mondo attuale non consente.
La dialettica tra la riflessione storica non ufficiale e la storiografia ufficiale, che nega ogni fondamento alla ricerca su civiltà perdute socio-culturalmente superiori e detentrici di conoscenze tecnologiche avanzate, può condurre a una riflessione sul dogma del progresso e su quello dell’eurocentrismo, che congiunti producono la visione che vuole la civiltà europea contemporanea come la migliore delle civiltà possibili.
Il correlato logico del “non è mai successo”, infatti, è l’affermazione, mai pronunciata, ma sempre implicata: “non può mai succedere”.
È per questo che il passato è e rimane terreno di scontro: poiché il ripensamento del passato è legato indissolubilmente al pensiero sul futuro e può avere conseguenze importanti sulla realtà.
Nel corso della storia del pensiero occidentale, il nome Atlantide ha finito per indicare la civiltà perduta per eccellenza, perciò si sono sedimentate su di esso una quantità impressionante di storie e discorsi, tra pseudoscienza, pseudostoria, racconti di fantasia e fantascienza, i quali, a dire il vero, dicono molto di più sull’epoca in cui sono stati scritti che su Atlantide stessa, sulla quale viene proiettato di volta in volta lo spirito dei tempi.
Dal punto di vista puramente storico-filologico, per Atlantide ci si riferisce al regno insulare caduto per mano degli “antichi Ateniesi” 9000 anni prima di Solone, un mito di cui si racconta nei dialoghi Timeo (21a-25d) e Crizia di Platone. A istruire Solone a proposito di Atlantide sarebbero stati i sacerdoti egizi della città di Sais, che reclamavano, tra l’altro, una parentela con gli Ateniesi, i quali, secondo loro, erano stati istruiti alla civiltà dalla loro stessa dea, Atena/Neith.
Nel Timeo si racconta, per bocca di Crizia, zio di Platone per parte di madre, che Atene sconfisse questo temibile e potentissimo regno insulare, che fu poi inghiottito dal mare e dalla terra a seguito di terremoti e diluvi, che lo sommersero e distrussero in una sola notte[3].
Il Crizia descrive la fondazione, la geografia e la forma di governo di Atlantide, parallelamente a quella dell’antica Atene.
Poiché questi racconti ci appaiono sotto forma di “mito”, sembra opportuno iniziare questa riflessione con un chiarimento sul significato della parola mito.
Il passaggio dal mythos al logos: un grande equivoco
La storiografia occidentale ha cercato nella filosofia greca la prova di una supposta separazione tra mythos e logos, attribuendola proprio a Platone, sebbene questi utilizzi in molti punti, nei suoi Dialoghi, il linguaggio mitico per rappresentare i concetti più importanti della propria filosofia.
In realtà l’idea dell’opposizione tra mythos e logos, intesi l’uno come racconto fantasioso l’altro come ragionamento fondato, risale al XVIII secolo, all’Illuminismo[4].
L’accezione che vuole che la parola “mythos” indichi un discorso fantasioso, in sostanza falso, è estranea a Platone, il quale utilizza le parole mŷthos e lógos come sinonimi nelle espressioni eikòs lógos e eikòs mŷthos (“discorso probabile, verisimile”)[5].
Tuttavia, il concetto di verità del mito non va inteso nel senso più immediato e banale di racconto storico e fattuale.
Nel suo senso antropologico originario, il mito collega la storia di una comunità alla cosmologia e al sacro ed è, insieme all’altra sua faccia fondamentale che è il rito, il collante essenziale di una comunità coesa.
La parola “mitologia”, infatti, è una creazione di Platone, ma non significa, come oggi si intende, “lo studio di racconti fantastici”, bensì “la raccolta di insegnamenti utili degli antenati”. Perciò i racconti mitici raccolti nei dialoghi di Platone sono veri nel senso che contengono un insegnamento vero. Nello specifico, il racconto di Atlantide serve innanzitutto a mostrare ai Greci come, dimenticando e ignorando il volere degli Dèi, un popolo si espone a sicura rovina, per mezzo della punizione divina[6].
Solo tenendo conto di questi mutamenti di funzione e significato della parola mito, è possibile passare a domandarsi se nel racconto platonico di Atlantide, oltre a un insegnamento morale, sia possibile leggere le tracce di avvenimenti storici e geologici “fattuali”.
La storia dietro il racconto mitico?
Si deve, tra le altre cose, all’autorità attribuita ad Aristotele nella storia del pensiero europeo, la riduzione a invenzione totale del racconto platonico su Atlantide. È a lui attribuita, infatti, la frase «colui che l’ha sognata, l’ha fatta scomparire», sebbene non ci siano, nelle opere aristoteliche a noi giunte, tracce di questa affermazione[7].
Tuttavia, non è da escludere che, oltre al contenuto di verità come descritto nel paragrafo precedente, si possano riscontrare nel racconto platonico elementi di eventi avvenuti in una storia molto lontana, precedente alle prime testimonianze di scrittura greca, trasmessi oralmente attraverso i secoli.
Ciò che risulta però difficile, è separare con certezza la materia “storica” del racconto da quella che costituisce invece una proiezione delle riflessioni di Platone e di eventi storici all’epoca recenti.
Molto del racconto platonico è da ricollegare alla riflessione, portata avanti dal filosofo nel corso di tutta la sua vita, sulla kallípolis, la “città ideale”. A questa incessante riflessione, presente nel corso dell’intera opera platonica, è da ricondurre quasi certamente tutto ciò che riguarda la forma politica e la ripartizione del territorio atlantideo, organizzato secondo un principio di perfezione geometrica.
Un altro punto problematico riguarda sia la datazione della caduta di Atlantide, 9000 anni prima di Solone, sia la rappresentazione di tale civiltà come un enorme impero conquistatore che minacciava di soverchiare gli antichi Ateniesi.
Il primo problema, quello della datazione, ci pone davanti al dato che 9000 anni prima di Solone, ovvero nel 9600 a. C. circa, non esisteva ancora un popolo distinto che si potesse definire “greco”, e naturalmente, essendo molto lontano dall’arrivo degli Indoeuropei in Europa, non ci potevano essere gli antichi “Ateniesi”, intesi come popolo di lingua greca residente nella città di Atene, e non c’era probabilmente nemmeno ancora una lingua proto-indoeuropea con un’identità definita; non si trovano inoltre per quell’epoca testimonianze archeologiche del tipo di urbanizzazione e architettura palaziale cui si fa riferimento in Crizia 116c, né della lavorazione del rame[8].
Piuttosto, in questo racconto è riflessa la recente vittoria dei greci sull’Impero persiano, che tanto potere diede alla città di Atene, insieme all’importanza attribuita alla guerra dalla cultura greca e indoeuropea in generale, che si riflette nel culto del valore bellico maschile e degli eroi[9].
Perciò, sia l’imperialismo degli atlantidei, sia la presenza degli ateniesi in aree a quell’epoca non popolate da popolazioni di lingua greca, costituiscono proiezioni del presente sul passato e, soprattutto, dell’immaginario greco sull’immaginario di una cultura non greca.
Anche nei riferimenti a specie esotiche, come gli elefanti (Crizia, 114e), sebbene la specie non fosse ignota a popoli come i cretesi, che intrattenevano contatti commerciali con l’Africa del Nord, è da vedere probabilmente la tendenza all’esagerazione tipica dei resoconti orali, con la funzione di aumentare il senso di “esotico” conferito al racconto[10].
Nonostante ciò, non è possibile escludere che parte del racconto di Platone sia da ricondurre a eventi realmente accaduti in un passato remoto. Il tópos della città prospera distrutta è probabilmente effettivamente un racconto mitico diffuso presso i greci, riconducibile a una tragedia realmente avvenuta in un passato remoto.
Non sarebbe sorprendente, infatti, che Platone abbia voluto attingere a un tópos mitico ben presente nella tradizione culturale, capace così di rendere l’insegnamento più comprensibile e facile da memorizzare[11].
Nel passaggio iniziale del racconto di Platone su Atlantide, si legge: «(…) a quel tempo, era possibile attraversare quel mare, perché davanti a quella foce che viene chiamata, come dite, Colonne d’Eracle, c’era un’isola. Tale isola, poi, era più grande della Libia e dell’Asia messe insieme, e a coloro che procedevano da essa si offriva un passaggio alle altre isole, e dalle isole a tutto il continente che stava dalla parte opposta, intorno a quello che è veramente mare. Infatti, queste parti del mare, che stanno dentro alla foce di cui stiamo parlando, sembrano essere un porto che ha una sola entrata stretta. Invece, quello si potrebbe chiamare veramente mare, e la terra che lo circonda si potrebbe chiamare giustamente continente” (Timeo, 24e-25a: trad. Giovanni Reale)
Questo è certamente un passaggio che ha richiamato su di sé l’attenzione di molti e che è alla base delle ipotesi che collocano Atlantide in un’isola sprofondata nell’Atlantico[12].
Nel leggerlo, però, bisogna sempre tenere presente la tendenza, tipica della trasmissione orale, a ingrandire gradualmente, nel corso del tempo, il soggetto del racconto. Di certo, però, questo passo testimonia l’esistenza di popoli che avevano grandi abilità di navigatori e che lasciarono un’impressione indelebile sugli antenati dei Greci.
Successivamente, nel Crizia, la descrizione di Platone fa pensare in più punti a un’isola che doveva avere una cultura di tipo cretese, a sua volta erede della civiltà pacifica che occupava l’Europa prima dell’invasione da parte degli indoeuropei, la civiltà della cosiddetta Vecchia Europa. Un indizio fondamentale è il riferimento al metallo dal nome oreíchalkos (Crizia 114e), il rame.
La lavorazione del rame era infatti diffusa nell’Europa sudorientale fin dal VI millennio a. C. ed era una delle attività più fiorenti della Vecchia Europa[13].
È proprio questa, infatti, l’ipotesi di Harald Haarmann, che, nel suo libro pubblicato di recente, Von Thera nach Atlantis. Die Geschichte hinter dem mythischen Inselreich (Da Thera ad Atlantide. La storia dietro il mitico regno insulare), nota diversi parallelismi tra il racconto platonico, che fa riferimento a una combinazione di terremoti e inondazioni, e la catastrofe che colpì Thera e poi Creta in seguito all’eruzione del vulcano sottomarino di Thera nel 1610 a. C. circa; disastri naturali che portarono alla distruzione di Thera (attuale Santorini) e diedero inizio al declino della cultura cretese, lasciando le rotte egee e mediterranee al dominio incontrastato degli antenati dei Greci, i Micenei[14].
Haarmann cerca di risolvere il problema di datazione riagganciandosi all’ipotesi di Angelos Galanopoulos, che il conteggio degli anni riportato a Solone dai sacerdoti egizi sia in realtà un conteggio di mesi[15]: contando 9000 mesi anziché 9000 anni si giungerebbe a una datazione che coinciderebbe con il periodo di fioritura della civiltà di Thera e della sua successiva caduta in seguito a disastri vulcanici, terremoti e conseguenti inondazioni: eventi cui seguì l’occupazione e la conquista da parte dei Micenei[16]. Il tutto non avvenne in una sola notte, come scrive Platone, ma di certo molto velocemente.
A proposito della struttura di Atlantide, in nessuna delle collocazioni ipotetiche[17] si trovano le tre cinte di mura e le strutture architettoniche descritte nel Crizia, ma un’affascinante ipotesi di Ulrich Johann collega il racconto di tali imponenti strutture murarie all’aspetto della caldera vulcanica nell’epoca in cui fiorì la civiltà di Thera[18].
Accettando quest’ipotesi, si può collegare la descrizione del palazzo in cui si trova il santuario di Clito e Poseidone, descritto a partire da Crizia 116c e volto a mostrare l’abilità architettonica degli atlantidei, alla memoria della fioritura della cultura palaziale cretese.
Atlantide e l’Età dell’Oro: il ricordo della matria perduta da Esiodo a Platone
Platone è il primo a nominare un’isola di nome Atlantide, ma i riferimenti a civiltà perdute, spesso di superiore saggezza, sono presenti ovunque nelle culture del mondo. Nei testi classici greci, e in Platone stesso, ad esempio, si trova il riferimento a un’età passata, nota come Età dell’Oro, caratterizzata da grande prosperità e popolata di esseri umani dalle facoltà spirituali superiori.
I primi riferimenti all’Età dell’Oro, che sarà poi un tópos frequente nella letteratura greca e latina, si trovano in Esiodo, il quale, nei versi 106-126 de Le Opere e i giorni, i cui punti più interessanti sono riportati in epigrafe a questo articolo, la descrive come un’epoca mitica di abbondanza, felicità ed equa ripartizione di opere e risorse.
Dopo aver delineato con nostalgia quest’età di prosperità e gioia, il poeta descrive il succedersi di diverse età, caratterizzate da stirpi di esseri umani sempre peggiori, l’Età dell’Argento, del Bronzo, degli Eroi, fino all’età attuale: l’Età del Ferro.
Ognuna di queste età viene presentata come un decadimento dalla precedente, fino alla nostra, la peggiore di tutte, destinata a sfociare nella dissoluzione assoluta.
Nella Teogonia, Esiodo descrive la guerra fra i Titani e gli Dèi olimpici, nella quale si riflette la lunga lotta tra gli invasori indoeuropei e le popolazioni autoctone. Una storia la cui memoria si percepisce anche nello scontro tra antichi ateniesi e atlantidei, se pur influenzato dal ricordo di guerre più recenti, tra cui le guerre persiane[19].
Come Platone stesso ci fa sapere, i nomi sono resi in greco da una lingua diversa (Crizia, 113a).
Il nome del titano Atlante, infatti, da cui l’isola e il mare prendono il nome, presenta un tipico elemento pregreco, il morfema -ant-[20].
Nell’Odissea e nella Teogonia c’è un’Atlantide, ma non è una terra, bensì l’epiteto di Calipso, figlia di Atlante, il Titano che regge il cielo presso le Colonne di Eracle (Odissea, I, 51-54; Teogonia, 517-520)21, la quale vive su un’isola che, nel verso 50 del I libro dell’Odissea, Omero definisce «omphalós» (“centro, ombelico”) del mare.
In Crizia (113c), si racconta il mito dell’origine di Atlantide: su di un monte al centro di una pianura, abitato da «uno degli uomini nati dalla terra», Evenore insieme a Leucippe generò Clito; la fanciulla si unì a Poseidone, il quale fortificò la collina «rendendola scoscesa tutt’intorno» e formando una struttura fatta di «due strisce di terra e tre di mare» (113d).
In poche righe, Platone ci fornisce una serie di informazioni importantissime. Vediamo una dea della Terra, Clito, unirsi in nozze sacre con il dio Poseidone[22], e un uomo che nasce dalla terra, Evenore.
Questo ci ricollega alla descrizione dell’Età di Crono (o Età dell’Oro) che si trova nel Politico di Platone, dove si legge che «non vi era alcuna forma di guerra o rivolta» e «non vi erano forme di governo, né proprietà di donne e figli, perché tutti nascevano dalla terra, senza ricordo delle vite precedenti»[23] (271e-272a).
Il motivo della generazione degli esseri umani dalla terra, associato all’informazione, a mio parere essenziale, sull’assenza di governo e di possesso di «donne e bambini», fa pensare all’assenza di patrilinearità e autorità centrale, e quindi a una struttura di lignaggio matrilineare, che viene trasfigurata nel pensiero platonico – nato in pieno patriarcato greco – in un metaforico “nascere dalla terra”, espressione che fa pensare a una società che venera Gaia, la Madre Terra, quale era quella dei Pelasgi, come venivano chiamati i popoli autoctoni che abitavano la Grecia.
In diversi passi significativi si fa riferimento all’abbondanza di cibo che caratterizzava questa civiltà e all’equa distribuzione delle risorse, che rimandano all’assenza di proprietà privata e divisione in classi o caste, caratteristiche fondative di una civiltà matriarcale[24], come nel Politico (272a):
«… avevano frutti abbondanti dagli alberi e da molte altre piante, che nascevano non per l’agricoltura, ma prodotti spontaneamente dalla terra».
La matrilinea sepolta dell’Occidente: la negazione dell’Antica Europa
Nella Repubblica (575d), Platone fa menzione di sfuggita del fatto che i cretesi non si riferiscono alla propria terra come “patria” (patrís), ma come “matria” (mētrís).
D’altronde, nella forma di governo che nel Crizia segue alle nozze sacre tra Clito e Poseidone, il figlio primogenito che sarà “re tra i re” viene fatto risiedere nella «dimora della madre», assegnandogli così il lotto circostante, che è «il più grande e il migliore» (114a).
Il re, perciò, è colui che ha il diritto di abitare nel palazzo dell’antenata.
Nella rappresentazione che Platone fa di Atlantide, Poseidone sopraggiunge da “fuori” per unirsi a Clito, che è autoctona: è perciò lei ad essere in un certo senso la vera atlantidea, fonte della legittimità del re.
Per mezzo dell’autoctonia di Clito, che discende da coloro che sono nati da quella stessa terra, Atlantide, come Creta, è Terra della madre, matria.
Un’associazione, quella con Creta, per niente azzardata, vista la forte somiglianza del luogo descritto da Platone con Thera, centro fondamentale di una cultura imparentata con quella cretese.
Nel racconto di Platone si adombra così il ricordo sbiadito della matrilinea sepolta dell’Occidente, che per noi, che davvero siamo antichi europei per parte di madre[25], è il legame ancestrale con la nostra terra.
È alquanto singolare che, nonostante sempre più scoperte e connessioni tra archeologia, mitologia, linguistica, genetica[26] confermino l’esistenza di una koinè culturale nell’Europa pre-indoeuropea caratterizzata da una società avanzata, egualitaria, a guida spirituale femminile, la storiografia e la cultura popolare si concentrino sempre e solo su società avanzate che presentano una struttura sociale che appare più “comprensibile” all’occhio del patriarcato contemporaneo, come quella romana o egizia[27], ignorando il fatto che proprio in quell’epoca, liquidata e spesso omessa come “preistorica”, si concentra la maggior parte delle acquisizioni fondamentali dell’umanità – quali l’agricoltura, la conoscenza delle erbe, l’allevamento, il numero, la musica, l’astronomia – sulle quali ancora oggi si fonda la nostra vita sulla Terra, e sulla base delle quali, in fin dei conti, poggia la maggior parte delle tecnologie oggi presentate come “innovative”[28].
Cos’è la superiorità culturale? La proiezione del presente sul passato e l’impossibilità di immaginare un passato diverso
Ma che cosa vuol dire una civiltà “culturalmente superiore”? Quali sono i parametri che permettono di stabilire la superiorità culturale? La tecnologia, intesa come la fabbricazione di “strumenti” sempre più complessi per la vita quotidiana? Il grado di organizzazione piramidale della società? La capacità di sottomettere a sé le civiltà circostanti sulla base di tecnologie belliche e sistemi economici altamente aggressivi?
Molti, influenzati dai valori della società patriarcale, potrebbero rispondere in questo modo. Lo stesso Platone, in effetti, rappresenta Atlantide come una potenza conquistatrice e Atene come la paladina di una “guerra giusta” contro una civiltà temibile.
E se fosse, invece, il grado di benessere diffuso a indicare la “superiorità” di una cultura?
Questo indurrebbe a capovolgere intere narrazioni storiche sulle civiltà del passato e del presente, rivalutando coloro che furono sottomessi e sterminati, e inducendo a riconsiderare la supposta superiorità di popoli dalla struttura patriarcale e gerarchica come gli Antichi egizi e i Romani. Atlantide, la saggezza perduta, sarebbe perciò da cercare negli ultimi della storia, eredi di oppressi, nei Pelasgi, emersi alla storia col solo esonimo dato loro dai greci che significa “quelli delle vicinanze”; nei paria della storia, nelle streghe e in tutti gli oppressi senza nome che la storia non ci ha riportato.
Nuove proiezioni del presente sul passato: vicoli ciechi nelle riflessioni amatoriali contemporanee
Orfane spesso di una seria riflessione accademica sul tema, la storiografia amatoriale e la pseudoscienza si sono lanciate in interpretazioni fantasiose dei dati mitologici e archeologici.
Racconti pseudoscientifici si concentrano sul divario incolmabile tra noi e alcune misteriose civiltà del passato, seguendo alcuni cliché che si ripetono identici.
Basandosi sul concetto di “civiltà superiore”, infatti, non di rado ci si concentra soltanto sul lato tecnologico di tale superiorità, proiettando così sul passato l’ossessione che la civiltà attuale nutre per tutto ciò che è “tecnologia”, una tecnologia che è strumento di una civiltà che non si preoccupa dei fini, ma persegue un’idea fumosa di “progresso” come valore in sé, secondo la quale “tutto ciò che si può fare, deve essere per forza fatto”: un pensiero che in ultima analisi giustifica qualsiasi atrocità e aberrazione in nome della tecnica.
Colpiti dalle sorprendenti conoscenze astronomiche e dalla profonda comprensione spirituale dell’universo, dimostrata da passate civiltà, diversi appassionati, sostenuti spesso da programmi televisivi di consumo, non hanno esitato ad attribuire la fondazione di tali civiltà ad esseri umanoidi dalle capacità sovrumane, alieni, magari.
Ma se consideriamo Creta e Thera come l’ultimo ramo superstite di quella civiltà pan-europea che ha influenzato i racconti su Atlantide e sull’Età di Crono, non possiamo che soffermarci sugli affreschi giunti a noi, che raffigurano scene di natura ricca di specie vegetali e animali, scimmie, delfini, piante di ogni sorta; scene di danze e giochi rituali, scene di pesca. E ciò che ci colpisce è un’assenza fondamentale: non ci sono scene di guerra né di conquista, non ci sono figure di sovrani. Sebbene le persone raffigurate siano diverse fra loro, non è l’individuo il fulcro della rappresentazione, ma la celebrazione della sua armonia con la comunità e con la Natura[29]. Tutto questo si connette indissolubilmente con l’assenza di distinzione di censo che viene testimoniata dalle ricerche archeologiche di Marija Gimbutas per le società dell’Antica Europa[30] .
Ciò che colpisce in quegli affreschi, come nota Haarmann, non è la differenza, bensì la somiglianza delle donne ritratte con le donne europee, dell’Europa meridionale in particolare, segno che nelle nostre vene scorre lo stesso sangue. La somiglianza delle loro vesti e dei loro gioielli con i nostri indica una continuità culturale silenziosa: segno che, se smettiamo di guardare a ciò che ci urla dall’alto di una cultura ufficiale intrisa di pregiudizi, e guardiamo a ciò che sussurra, un fiume ininterrotto di conoscenza scorre da loro a noi.
Conosci te stesso/a
Comprendere che c’è qualcosa che non va nella società attuale, che deve esserci stato e ci sarà in futuro dell’altro è un’importante acquisizione, ma non basta.
Molto spesso ci si ferma qui, fantasticando su una società impossibile, che conservi le stesse disuguaglianze di base, compresa la più importante e fondativa, il rapporto di «colonialismo interno», che è l’origine di ogni altro rapporto coloniale: la supremazia dell’uomo sulla donna[31].
Tutto questo perché risulta difficile, sia per gli uomini che per le donne contemporanee, osare sfidare il dogma della guerra perpetua, della sopraffazione inevitabile.
In un mondo dove l’individuo medio non conosce i più semplici movimenti degli astri nel cielo, non sa ascoltare il proprio corpo e si sente per lo più estraneo ad esso, usufruisce quotidianamente di tecnologie di cui non comprende il funzionamento ed evita di porsi domande sul significato del proprio essere nel mondo, certo, il pensiero di una società dove la maturità spirituale e l’equilibrio sociale si associavano ad avanzate capacità tecniche e conoscenze astronomiche deve sembrare un’acquisizione irraggiungibile.
Comodo, perciò, introdurre come deus ex machina esseri sovrumani che servano a tamponare il malfunzionamento dell’utopia, a spiegare la tenuta di un sistema pressoché identico al nostro eccezion fatta per misteriose “tecnologie”, sfuggendo così alla domanda principale, che è quella che era incisa all’ingresso dell’oracolo delfico, centro cultuale risalente ai tempi dei Pelasgi, dunque dell’Antica Europa[32]: Conosci te stesso/a.
Non esiste uno scavo nel passato che non sia uno scavo dentro sé stessi, mettendo in discussione le proprie convinzioni, tra cui soprattutto l’accettazione di verità comode che ci configurano come perpetue vittime o perpetui carnefici, senza alternativa alcuna.
Una vita di armonia è possibile: è stata, e verosimilmente sarà ancora. È più vicina a noi, se solo osiamo pensarla. Non c’è nulla in noi che ci impedisca di realizzarla, anche adesso.
Teresa Apicella
[1] Esiodo, Opere e giorni, tratto dai vv. 112-119, sull’Età dell’Oro, traduzione mia.
[2] Sullo stereotipo della “guerra eterna” e sulla sua capacità di distorcere l’interpretazione delle fonti archeologiche, si rimanda al secondo capitolo di Heide Göttner-Abendroth 2019.
[3] Si tratta dunque di un racconto che era probabilmente trasmesso di generazione in generazione nella famiglia di Platone, il quale, tra l’altro, durante i suoi viaggi, era stato in Egitto (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, III.6).
[4] Harald Haarmann, Myth as source of knowledge in early western thought. The quest for historiography, science and philosophy in Greek antiquity, Harrassowitz, Wiesbaden, 2015; Id., Von Thera nach Atlantis. Die Geschichte hinter dem mythischen Inselreich, S. Marix, Wiesbaden,2022, pp. 209-10.
[5] Harald Haarmann, Plato’s philosophy reaching beyond the limits of reason. Contours of a contextual theory of thruth, Hildesheim / Zürich / New York, 2017; Haarmann 2022, pp. 209sgg.
[6] Haarmann 2022, p. 210.
[7] Strabone, Geografia, II, 3, 6.
[8] Haarmann 2022, p. 54.
[9] Cfr. Heide Göttner-Abendroth, Geschichte matriarchaler Gesellschaften und Entstehung des Patriarchats, Kohlhammer, Stuttgart; Haarmann 2022, pp. 56-57.
[10] Haarmann 2022, p. 56.
[11] Su questo tema, si vedano soprattutto i capitoli 2 e 13 di Haarmann 2022.
[12] Le varie ipotesi di questo tipo sono discusse in Haarmann 2022, pp. 79-82.
[13] Ernst Pernicka / David W. Anthony 2009, The invention of copper metallurgy and the Copper Age of Old Europe, in David W. Anthony, The lost world of Old Europe – The Danube valley, 5000-3500 BC, Princeton University Press, Princeton-NJ-Oxford; Haarmann 2022 p. 42.
[14] Haarmann 2022, capitolo 10, pp. 181-188.
[15] Angelos G. Galanopoulos, On the location and size of Atlantis, «Praktika Akademia Athenai», 35, pp. 401-418.
[16] Haarmann 2022, p. 60.
[17] Per le teorie più importanti, si veda il capitolo 4 di Haarmann 2022.
[18] Ulrich Johann, Resurrection of Atlantis Minoica: A new localization of the Akrotiri (Santorini, Greece) West House room five frescos scenes in view of current geological findings, Researchgate.net, Part 1 2019, Part 2 2020; l’ipotesi è citata da Haarmann 2022, p 43.
[19] Haarmann 2022, pp. 41-42
[20] Robert Beekes, Etymological dictionary of Greek, Brill, Leiden-Boston, 201, p. 12; Haarmann 2022: 41.
[21] Cfr. Haarmann 2022, p. 42 ed Esiodo, Teogonia, 939.
[22] Haarmann 2022, pp. 40-41.
[23] Qui, e dove non è indicato, traduzione mia.
[24] Heide Göttner-Abendroth, Le società matriarcali. Studi sulle culture indigene del mondo, Venexia, Roma, 2012.
[25] Lo siamo letteralmente, poiché un recente studio genetico ha rivelato che l’invasione indoeuropea dell’Età del bronzo, avvenuta per opera di gruppi di maschi guerrieri, comportò la scomparsa dal patrimonio genetico europeo dei geni provenienti dai maschi della popolazione autoctona: uno scenario che fa pensare a una conquista violenta alla fine della quale le donne della Antica Europa furono fatte spose con la forza (Amy Goldberg / Torsten Günther / Noah A. Rosenberg / Mattias Jakobsson, Ancient X chromosomes reveal contrasting sex bias in Neolithic and Bronze Age Eurasian Migrations, in Wolfgang Haak (ed.), Max Planck Institute for Science of Human History, 2017, Göttner-Abendroth 2019, p. 328-329).
[26] Recenti studi genetici (Wolfgang Haak et al., “Massive migration from the steppe was a source for Indo-European languages in Europe”, in Nature, Bd. 522, 22. June 2015; Goldberg et al. 2017) hanno confermato le teorie di Marija Gimbutas, che collegavano la civiltà dei kurgan, originaria delle steppe eurasiatiche, all’invasione indoeuropea, dimostrando così l’erroneità delle teorie di Colin Renfrew che collegavano la civiltà indoeuropea alle culture agricole neolitiche dell’Anatolia.
[27] Eppure, per quanto riguarda uno dei tratti distintivi delle società avanzate, la scrittura, l’Antica Europa precede di gran lunga, con le sue testimonianze di scrittura risalenti al 6000 a. C., la cultura sumera, le cui prime testimonianze di scrittura si collocano circa 3000 anni più tardi. La scrittura Lineare A, testimoniata dalle tavolette cretesi, è, secondo Haarmann, uno sviluppo della scrittura della Antica Europa (Harald Haarmann, Einführung in die Donauschrift, Buske, Hamburg, 2010).
[28] A questo proposito, si segnala: Joseph Campbell, Il numero misterioso della Dea. Tutto ha un nuovo inizio, in Joseph Campbell / Riane Eisler / Marija Gimbutas / Charles Musès, I nomi della Dea. Il femminile nella divinità, Ubaldini, Roma, 1992. L’autore presenta uno studio profondo e interculturale sulle conoscenze astronomiche e sulla teoria del numero e della musica delle società matriarcali, a partire da uno studio comparativo di fonti epiche e religiose di epoca storica di diverse culture, anche molto distanti tra loro.
[29] Haarmann 2022, pp. 154-159.
[30] Marija Gimbutas 1991. La Civiltà della Dea. Il mondo dell’Antica Europa, 2 voll., Stampa Alternativa/Nuovi Equilibri, 2013.
[31] Heide Göttner-Abendroth, Le società matriarcali. Studi sulle culture indigene del mondo, Venexia, Roma, p. 11.
[32] Max Dashu, The Pythias, in Secret History of the Witches, Veleda Press, 2009.