
I riti di iniziazione, proprio perché distinti per genere e sottratti allo sguardo dell’altro, hanno custodito mondi separati, linguaggi simbolici incomprensibili a chi non ne era parte. Quelli riservati alle donne hanno conservato il ricordo di un tempo in cui esse erano sacerdotesse, guide del passaggio, custodi del ciclo vita-morte-rinascita. Percorsi iniziatici che gli uomini non solo non potevano attraversare, ma di cui non hanno mai avuto coscienza. Quel sapere sciamanico, tramandato in silenzio e nel segreto, ha resistito sotto altre forme, camuffato nei miti, nelle fiabe, nei gesti quotidiani fino ad essere bruciato insieme alle streghe, ultime vestali di una conoscenza che fa paura perché sfugge al controllo e parla con la voce dell’invisibile.
Non tutte le culture, così come non ogni persona, sono state educate a vedere oltre la superficie delle cose. Esistono tradizioni – diffuse in epoche e luoghi diversi – che hanno posto al centro del proprio sapere l’arte di leggere il mondo come un insieme di segni. Per queste culture, ciò che è visibile è solo il primo strato: ogni immagine, ogni gesto, ogni racconto rimanda a qualcosa di più profondo, invisibile, che attende di essere riconosciuto. Ma questo approccio non fa parte della “nostra” tradizione occidentale.
Un esempio di ciò che la cultura patriarcale ci ha fatto perdere, ci è offerto dalla narrazione cristiana dei Vangeli: Gesù, dopo aver predicato per un tempo determinato, viene crocifisso, muore sulla croce e, tre giorni dopo, risorge. Milioni di fedeli accolgono questo racconto nella sua nudità letterale, elevando proprio l’inverosimile a fondamento della fede, come se fosse la rinuncia alla comprensione di ciò che è oltre la narrazione a costituire, paradossalmente, il segno della spiritualità più autentica. In realtà, questo gesto di semplificazione cela una sottrazione: il mistero viene appiattito sul miracolo, e il simbolo sul fatto.
Questa premessa un po’ ermetica è per me d’obbligo perché sto per raccontare un mito che è celato da migliaia di anni in una una fiaba infantile. Si tratta di una narrazione che la nostra civiltà ha ridotto a racconto pedagogico per bambine, rimuovendo il potenziale mitico e trasformativo che essa custodisce, ignorando la sua potenza simbolica irriducibile che prima o poi farà ri-svegliare le giovani donne al proprio ruolo nel ciclo sacro della Terra.

La fiaba, un relitto mitologico
Dietro le fiabe popolari si celano spesso frammenti sopravvissuti di antichi miti. È il caso di Cappuccetto Rosso, una delle storie più note della tradizione europea, spesso banalizzata come racconto moralizzante sul pericolo e l’obbedienza. Eppure, sotto la superficie del testo codificato da Perrault o dai fratelli Grimm, si nasconde qualcosa di più antico e potente: un mito primordiale incentrato su una figura femminile, sul bosco, sulla metamorfosi e sull’animale sacro.
Recenti studi comparati hanno confermato che questa fiaba affonda le radici in un nucleo narrativo preistorico diffuso su scala globale. Analizzando la struttura simbolica, possiamo riconoscere in Cappuccetto Rosso la traccia di un rituale sciamanico femminile, in cui la giovane donna non è vittima ma erede di un sapere antico. Il lupo non è un predatore, ma la pelle sacra che ricopre il corpo della Crona, la sciamana anziana, forse defunta. Il racconto parla di trasformazione, morte e trasmissione di sapere e ruolo.
Il mito paleolitico della giovane donna e del predatore
Nel 2013, l’antropologo francese Julien d’Huy (di cui scrivemmo già qui) ha pubblicato uno studio rivoluzionario sull’origine di Cappuccetto Rosso, applicando al folklore una tecnica di analisi filogenetica mutuata dalla biologia. Studiando centinaia di varianti globali della fiaba (Europa, Africa, Asia, Americhe), d’Huy ha dimostrato che il nucleo del racconto — una giovane donna ingannata o divorata da un animale travestito — non è esclusivo dell’Occidente, ma è diffuso in culture separate da millenni di storia e migliaia di chilometri.
Questa struttura narrativa risale probabilmente al Paleolitico, e potrebbe essere nata prima della dispersione degli esseri umani fuori dall’Africa
(J. d’Huy, 2013)
In termini strutturali, il mito segue uno schema stabile:
- Una giovane donna entra in uno spazio liminale (il bosco);
- Lì incontra una figura predatoria travestita da familiare (la nonna);
- Avviene un momento di divoramento, inganno o iniziazione;
- A volte segue una rinascita, una fuga, o la trasformazione del personaggio.
Noi conosciamo il finale che vede un cacciatore, un maschio, che mette ordine con la violenza e la morte in questo scenario altrimenti incomprensibile a chi non è iniziato, che entra in scena e uccide (con il fucile) il lupo travestito come Nonna che ha appena divorato (alcune versioni il cacciatore apre con un coltello la pancia del lupo-nonna e la fa uscire viva).

Il lupo non mangia la nonna: la nonna è il lupo
Una delle immagini più enigmatiche del racconto classico è quella del lupo travestito da nonna. L’interpretazione vede in questo travestimento un inganno. Ma letta attraverso l’antropologia simbolica e lo sciamanesimo, l’immagine può rovesciarsi: non è il lupo a indossare i panni della nonna, ma è la Crona, la nonna defunta a essere avvolta nella pelle dell’animale sacro.
Nei riti sciamanici di molte culture artiche, siberiane e native americane, la pelle dell’animale totemico viene usata per rivestire il corpo dello sciamano/a defunto/a o iniziato/a. L’animale rappresenta il tramite tra i mondi. Nella nostra fiaba, la nonna — figura anziana, sapiente, connessa al sapere delle erbe (e che infatti vive nel bosco) — muore o si trasfigura, e la pelle del lupo diventa segno della sua potenza spirituale. È una trasformazione, non una punizione.
La bambina (che “indossa il rosso”, colore del sangue mestruale e iniziatico), attraversa il bosco per portare qualcosa alla nonna (una focaccia e una bottiglia di vino (simboli cristici), doni preparati dalla madre, destinati a nutrire e rafforzare la nonna malata; nella versione più antica della tradizione orale europea, e soprattutto in quella francese arcaica (es. Le Petit Chaperon rouge narrata da Perrault o da fonti popolari precedenti), si parla più genericamente di cibo e bevande, ma le varianti includono anche pane e latte, oppure burro e formaggio): ma in realtà, riceve qualcosa. L’incontro con il lupo è un passaggio rituale, un confine tra infanzia e maturazione, tra ignoranza e conoscenza ella prende il posto della Crona come sciamana.

Un banchetto di sangue: il rito cannibale della trasmissione
In versioni popolari molto antiche (come The Story of Grandmother, raccolta da Paul Delarue), prima dell’arrivo dei Grimm, la bambina mangia la carne e beve il sangue della nonna, (3) serviti dal lupo. Questo episodio, censurato nelle versioni moraliste, è cruciale per comprenderne la dimensione arcaica.
Il pasto antropofagico è presente in molti rituali di passaggio, e rappresenta la trasmissione del sapere e della potenza magica: mangiare il corpo della sciamana significa assorbirne l’anima, continuare il suo ruolo. Il lupo in questo caso non è più predatore, ma agente del rito.
Quel “cappuccetto rosso” della fiaba non è solo un accessorio narrativo, ma può essere letto come un simbolo arcaico, carico di stratificazioni culturali. Nelle sepolture del Paleolitico superiore e nelle raffigurazioni delle statuette preistoriche, si trovano spesso tracce di ocra rossa, pigmento simbolico associato al sangue, alla vita, alla morte e alla rigenerazione. Alcune statuette sembrano indossare veri e propri copricapi o cappucci resi evidenti proprio grazie all’uso dell’ocra. In questo senso, il cappuccio rosso della fiaba potrebbe conservare, in forma degradata e popolare, un’eco di antichi rituali iniziatici legati alla figura femminile, alla trasformazione, al ciclo vitale. Non è solo una bambina che va nel bosco, ma una portatrice involontaria di un archetipo molto più antico: la donna che attraversa la soglia, indossando il rosso sacro della nascita e della morte.
La giovane donna che rinasce
A conclusione del percorso, la ragazza — come nelle varianti africane e asiatiche — spesso sfugge alla bestia, con astuzia o grazie a un salvataggio. Ma non è più la stessa: ha attraversato il bosco, ha guardato negli occhi la morte, ha incontrato l’animalità. È una nuova sciamana. L’archetipo è quello della donna che rinasce nella pelle dell’animale, come le sacerdotesse oracolari, le portatrici di sangue, le iniziate.
Cappuccetto Rosso, nella sua lettura più antica e profonda, non è una vittima ingenua, ma una figura iniziatica, sopravvissuta a un ciclo di morte e rinascita. In lei si uniscono la fanciulla, la madre e l’anziana: le tre età del femminile sacro.
Cappuccetto Rosso è un mito trans-culturale risalente al Paleolitico, una fiaba di un rituale femminile di iniziazione, dove la pelle del lupo rappresenta l’eredità spirituale della donna-animale, della sciamana che ritorna.
Sotto la superficie innocente del racconto, è un sapere arcaico di straordinaria potenza: la conoscenza del femminile come forza capace di attraversare il buio, incontrare la bestia, fondersi con essa e rinascere trasformata, è la messa al mondo del tempo ciclico che precede tutte le culture. È un sapere iniziatico, profondo, che riguarda la morte simbolica e la rigenerazione — un potere che la cultura occidentale patriarcale non poteva tollerare né tramandare apertamente. Eppure, proprio per la sua potenza, questo nucleo simbolico non è stato mai del tutto cancellato: ha continuato a vivere nelle fiabe, nei riti frammentati dell’immaginario collettivo. È lo stesso processo che, in epoca greca, ha portato alla trasfigurazione delle antiche divinità femminili: le Dee arcaiche furono inglobate, smembrate, riassorbite in figure maschili, che ne conservarono a tratti il potere, ma ne svuotarono il senso originario.
Alessandra de Nardis
NOTE:
1: E’ tutt’altro che neutro che nella nostra lingua (come in molte altre) il termine “preda” assuma genere femminile, mentre “predatore” sia declinato al maschile; una asimmetria linguistica per nulla innocua.
2: La ricerca di Julien D’Huy, specializzato in filogenetica dei miti e con un dottorato in storia presso l’Institute of African Worlds, propone che le celebri figure delle donne-bisonte di Pech-Merle rappresentino l’illustrazione di un mito preistorico che ha cercato di ricostruire nel saggio Le motif de la femme-bison. Essai d’interprétation d’un mythe préhistorique (in Bulletin de la Société de Mythologie Française, n° 242, marzo 2011). Per individuare quella che definisce la “matrice originaria” o “racconto primo“, D’Huy ha analizzato decine di miti e leggende cosiddetti “zoemi” – narrazioni in cui animali svolgono una funzione semantica – provenienti da diverse culture del mondo. Utilizzando strumenti mutuati dalla biologia evoluzionistica, come gli alberi filogenetici, ha identificato un nucleo mitico ricorrente, centrato sulla figura archetipica della donna-animale.
3: Nella tradizione cristiana, il rito dell’ostia e del vino è chiamato Eucaristia (dal greco eucharistía, che significa “rendimento di grazie”). È uno dei sacramenti fondamentali del Cristianesimo e il centro della liturgia cattolica. Significato teologico: Ostia (pane): rappresenta il corpo di Cristo / Vino: rappresenta il sangue di Cristo
Bibliografia essenziale riferita alla fiaba
- D’Huy, Julien. Little Red Riding Hood in a World of Wolves. Narrative Culture, 2013.
- Delarue, Paul. The Story of Grandmother, tradizione orale francese, sec. XIX.
- Eliade, Mircea. Lo sciamanismo e le tecniche dell’estasi, 1951.
- Estés, Clarissa Pinkola. Donne che corrono coi lupi, 1992.
- Ginzburg, Carlo. Storia notturna. Una decifrazione del sabba, 1989.