Intervista a Luciana Percovich di Maria Rosaria La Morgia per Rivista Abruzzese
La civiltà delle donne
«Il patriarcato è finito, non ha più il credito femminile ed è finito». Cominciava con quest’annuncio, nel 1996, un testo della Libreria delle donne di Milano intitolato È accaduto non per caso. Si accese un forte dibattito, anche nel movimento femminista, perché il patriarcato non sembrava scomparso, tutt’altro, ma quell’affermazione stava a indicare la fine del consenso femminile al potere maschile. Eravamo alla fine di un secolo, il ‘900, segnato dalle battaglie delle donne per i diritti e dalla rivoluzione non violenta del femminismo. Di patriarcato si è discusso molto dopo il femminicidio di Giulia Cecchettin e le parole della sorella, Elena, che ha trasformato il suo dolore in questione politica dicendo, chiaramente, che l’assassino della sorella non è un mostro.
«Un mostro è un’eccezione, una persona esterna alla società, una persona della quale la società non deve prendersi la responsabilità. E invece la responsabilità c’è. I “mostri” non sono malati, sono figli sani del patriarcato, della cultura dello stupro.»
Da quel momento si è scatenato un dibattito pubblico che ha mostrato anche profonde lacune culturali e la necessità di recuperare uno sguardo diverso che permetta di far luce su saperi e studi emarginati dal pensiero dominante. È di questo che abbiamo parlato con Luciana Percovich, saggista e autrice di alcuni testi importanti della storia delle donne e del pensiero femminista. Percovich ha fatto parte a Milano della Libreria delle Donne alla fine degli anni’70, poi è stata ricercatrice della Libera Università delle Donne, dedicandosi negli ultimi 20 anni agli studi matriarcali e sul sacro femminile. Da qualche anno ha scelto l’Abruzzo come terra di residenza e anche di impegno culturale tra un viaggio e l’altro in Italia e all’estero.
Innanzitutto proviamo a fare chiarezza su patriarcato e matriarcato che, semplificando, vengono letti in contrapposizione. Che cosa significano e che cosa ci raccontano?
Sì, comunemente si pensa che patriarcato e matriarcato siano una identica struttura piramidale e oppressiva con al vertice nel primo caso i padri (metonimia per maschi in generale) e nel secondo le madri/femmine. Invece non è affatto così.
Mentre le società patriarcali sono basate sul dominio di pochi maschi – dal microcosmo della famiglia al macrocosmo delle multinazionali, che si spartiscono a colpi di conflitti devastanti lo sfruttamento della natura e degli umani, quelle matriarcali sono società egualitarie sia dal punto di vista del genere che dell’economia e dell’organizzazione politica.
Il massimo che la struttura gerarchica patriarcale concede alle masse è di essere governate dal sistema politico “democratico”, ma le forme più praticate di gestione dei conflitti sono le guerre, i genocidi e i ginocidi (da noi si usa la parola femminicidi).
I sistemi matriarcali, il cui scopo è contenere l’aggressività e volgerla verso scopi socialmente utili, non mettono al primo posto la ricchezza materiale ma la prosperità delle comunità, a partire dai clan familiari alle confederazioni regionali e/o nazionali (in termini comunque presi in prestito dal patriarcato). La pratica politica sviluppata per realizzare questo obiettivo è quella che gli studiosi occidentali hanno definito “del consenso”, che permette di ascoltare le istanze di tutte/i, acquisendo molti più elementi verso l’individuazione delle decisioni da adottare ed evitando il malcontento che nel sistema democratico alimenta le “minoranze”, e di arrivare a decisioni condivise e il più possibile adeguate alle reali necessità dei singoli, delle comunità e del territorio.
Negli ultimi quarant’anni gli studi sulle società matriarcali hanno conosciuto una nuova vita, ma ci sono alcune pioniere che non possiamo dimenticare. Penso all’archeologa Marija Gimbutas. Chi è e perché le sue ricerche sono così importanti?
Marjia Gimbutas ha riportato alla luce una civiltà raffinata e durata decine di migliaia di anni, dal Paleolitico superiore all’Età del ferro, che non conosceva le guerre come strumento fondante e connaturato al sistema economico e politico. Una civiltà cancellata dalla vittoria dei nuovi popoli che cominciarono ad arrivare in Europa a partire dalla metà circa del periodo denominato Neolitico. Una civiltà che Gimbutas ha chiamato “della Dea”, policentrica, priva di centri di potere dominanti, che non impiegava le armi per uccidere i propri simili, non costruiva fortificazioni arroccate sulla cima delle alture, ma i cui insediamenti, anche vasti e articolati architettonicamente, erano posti in zone aperte e vicine ai corsi d’acqua, priva di distinzioni di rango/ricchezza sia nell’architettura degli insediamenti abitativi sia delle sepolture. E che esprimeva attraverso il simbolo che noi chiamiamo Dea (le cui statuette, quasi sempre di piccole dimensioni, compaiono in abbondanza in ogni sito, sia dei vivi che dei morti) la sua concezione del cosmo, legata al ciclo della Natura di vita, morte, rigenerazione e nuova nascita.
La civiltà che venne prima dell’inizio convenzionale della Storia (quella che in occidente viene fatta iniziare con la Guerra di Troia), liquidata sotto l’etichetta di Preistoria (come ancora è scritto nella maggioranza dei manuali di storia dalla scuola primaria all’università) e in quanto tale non degna di ricerca o riflessione. E che in ogni caso ha costretto a portare le datazioni indietro di millenni rispetto a Sumeri o Egizi, come le nuove possibilità di datazione oggi in uso hanno confermato.
Gimbutas non usa il termine matriarcato per definire queste culture pacifiche, termine coniato successivamente dai Moderni Studi Matriarcali della filosofa tedesca Heide Goettner Abendroth, che interpreta il termine greco arché non come “comando” ma nell’altro suo significato di “inizio”, per cui matriarcato significa “all’inizio le Madri”.
Ricostruendo questa genealogia c’è un’altra studiosa importante ed è l’italiana Momolina Marconi. Tu te ne sei occupata e hai curato la riedizione critica dei suoi saggi. Un lavoro che permette di ricomporre una mappa inedita della storia a partire dal Paleolitico. Quale?
Le due studiose sono grossomodo contemporanee (Momolina Marconi,1912-2006, Marija Gimbutas, 1921-1994) e hanno lavorato su percorsi, anche geografici, paralleli: Gimbutas prevalentemente sull’Europa continentale e Marconi sul bacino del Mediterraneo, le cui rotte arrivavano fino ai grandi fiumi asiatici come l’Indo. Una archeologa, l’altra docente di Storia delle religioni hanno scavato nella terra e nei testi scritti perché la Dea era lì che le chiamava, quasi premendo per riaffiorare alla coscienza e alla memoria (la maggioranza delle statuine o delle pitture delle grotte del Paleolitico erano inizialmente tornate alla luce per caso, dalla seconda metà dell’Ottocento, e non come esito di campagne di scavi). Le loro ricerche risultano spesso complementari nonostante non conoscessero reciprocamente i loro studi e forse nemmeno la loro esistenza.
Marconi in particolare scrive della koinè religiosa e culturale dell’Età del bronzo, dei popoli pelasgi e poi dei popoli italici, che hanno lasciato tracce specialmente nel campo del sacro, dei miti e dei riti e nella nomenclatura dei luoghi, da Gibilterra a capo Comorin nel sud dell’India.
Particolarmente interessante è il suo rimettere in circolazione il termine potnia, che traduce in una lingua già indo-europea come il greco una parola dell’idioma nativo europeo. La potnia è Colei che può, personificazione della Potente forza vitale che sa interagire con le leggi della Natura. Esprime una visione del Sacro e del Numinoso come “potere di” e non come “potere su” che si affermò solo quando il divino cominciò a separarsi dal mondo naturale. Furono i proto-patriarcali popoli kurgan che introdussero in Europa e in India l’idea del divino come entità del cielo in opposizione alla terra, concezione che successivamente portò all’idea della trascendenza di Dio. Le parole dea/dio entrarono nell’immaginario e nel linguaggio umano durante l’Età del bronzo, età di invasioni, guerre sanguinose e distruzione delle pacifiche culture neolitiche matriarcali.
Anche in Abruzzo ci sono tracce di questo passato, quali sono le più interessanti?
Marconi ha aperto la strada alla ricerca della infinità varietà di “dee” locali di cui ogni parte d’Italia è ricca, ma di cui si conservavano a malapena i nomi. Sono le cosiddette “dee italiche”, tra cui le più presenti in Abruzzo sono Angitia, Maja, Cerere, Persefone, Bona Dea, Feronia, Vacuna. Dagli scavi relativi a siti/templi loro dedicati e dalle tabulae che accennano ai riti loro connessi abbiamo imparato a cogliere la loro persistenza, spesso sotto nomi di sante cristiane, nelle feste popolari stagionali come quella delle Verginelle a Rapino, dei serpenti a Cocullo e Pretoro, di Santa Gemma a Goriano Sicoli, che sono le più note. Scavi e ricerche in pieno svolgimento stanno finalmente aprendo nuove letture della storia locale, fortemente intrecciata con il resto del territorio italiano e non solo.
«Oggi sta diventando sempre più chiaro che le strutture matriarcali hanno un grande rilevanza sia nello studio del passato che per il futuro, perché non sono utopie astratte costruite sulla base di ragionamenti filosofici irrealizzabili. Al contrario, sono esistite attraverso fasi lunghissime della storia arrivando fino al presente.» È un’affermazione di Heide Goettner Abendroth, filosofa femminista tedesca, della quale tu hai curato la pubblicazione di scritti in Italia. Sei d’accordo con lei? Ci potrebbe essere un pensiero nuovo che riesce a farsi strada contribuendo al miglioramento della nostra società?
Quando alle donne è diventata accessibile la formazione universitaria in tutte le discipline e hanno potuto iniziare a fare un metodico lavoro sul campo, si è aperto l’accesso all’altra metà delle culture indigene, fino ad allora studiate solo da uomini con i loro forti pregiudizi patriarcali, universalisti e monoteisti, quella conservata da lignaggi femminili, matrilineari. Abendroth, partendo dai numerosi studi oggi esistenti sulle culture indigene contemporanee che si sono conservate fino al presente nei diversi continenti, e viaggiatrice lei stessa presso molte comunità esistenti, ne ha tratto una inedita quanto rigorosa lettura ricostruendo la struttura familiare, economica, sociale e spirituale che ci permette oggi di descrivere una società matriarcale e/o riconoscere i tratti culturali matriarcali inglobati e resistenti dentro alle culture patriarcali.
“Un altro mondo è possibile”, uno slogan emerso qualche anno fa dalle ribellioni di chi non si rassegna a pensare l’ordine esistente come unico, universale e connaturato alla specie homo sapiens, acquista forza dalla conoscenza che un’altra visione del mondo è stata praticata per infiniti e sepolti millenni della storia umana, una storia che ci ha permesso con le sue invenzioni culturali basate sull’idea della fondamentale connessione tra umani e natura, di arrivare fino al presente.
Allo sviluppo tecnologico degli ultimi secoli non è corrisposto un analogo sviluppo cognitivo etico e psichico nel mondo occidentale, ingabbiato nella obsoleta trappola patriarcale. Penso che il risveglio delle culture native, ora più che mai sotto minaccia di estinzione forzata dalle violenze sempre attive nei loro confronti e nei territori su cui si sono potute conservare, unito a questa nuova consapevolezza storica e antropologica sia una riserva indispensabile capace di ispirare un nuovo salto evolutivo umano orientato di nuovo alla conservazione della vita e delle condizioni necessarie al suo mantenimento su questo pianeta.
Bibliografia minima
Marija Gimbutas, Il Linguaggio della Dea e La Civiltà della Dea
Momolina Marconi, Riflessi mediterranei nella più antica religione laziale e Da Circe a Morgana
Heide Goettner Abendroth, Le società matriarcali, Madri di Saggezza. La filosofia e la politica degli Studi Matriarcali Moderni e Società di Pace. Matriarcati del passato, presente e futuro.
Luciana Percovich, Oscure Madri Splendenti e Colei che dà la vita. Colei che dà la forma.
Bibliografia completa