LA DEA CHE SCORRE. La matrice femminile dello yoga tantrico – Gioia Lussana

Questo libro è stato per me, praticante e docente di yoga, una lettura importante che getta una luce sull’aspetto filosofico-religioso-rituale dello yoga tantrico in connessione alla Dea, la Śakti, potenza illimitata, energia del divino, personificata e identificata come femminile e dinamica. È lei che il tantrismo onora nel recupero della sua arcaicità.

È necessario sottolineare che il tantrismo e lo yoga sono vie indivisibili di realizzazione e che in India, per il fenomeno tantrico in particolare, l’importanza attribuita al corpo è tale da essere percepito come il luogo sacro per eccellenza, microcosmo riflesso del macrocosmo, entrambi abitati dal divino. A causa del suo simbolismo privo di inibizioni e della presenza di alcune pratiche erotiche, il tantrismo è stato spesso frainteso, anche per l’uso all’interno dei Tantra, che sono i testi di riferimento, di termini usati in un linguaggio intenzionale volutamente segreto e comprensibile solo alle iniziate e agli iniziati.

Solo una piccola parte dei Tantra è stata studiata e tradotta e di questa una piccolissima parte è giunta sino a noi. Prima della sua comparsa nel V-VI secolo della nostra era, si sosteneva che l’ottenimento della liberazione (mokșa) doveva essere condizionato da pratiche contemplative e da una rigida ascesi, mentre il tantrismo rovescia i termini del discorso, sostenendo che nulla può essere trasceso se prima non viene sperimentato, toccato, compreso attraverso il corpo e la psiche, primi strumenti di conoscenza dell’individuo, sia uomini che donne, per raggiungere la percezione dell’assoluto. Il rito, nel tantrismo, riveste una funzione primaria: trascendere l’ordinaria condizione umana e trasformarla in luce della coscienza.

Con una scrittura rigorosa Gioia Lussana, nel suo saggio, distilla ogni termine sanscrito restituendoci il nucleo fondamentale delle parole, necessario per avvicinarsi alla ricerca di senso profonda del fenomeno tantrico così antico e lontano da noi. Ci accompagna in Assam, piccolo stato del Sub-continente indiano, alla ricerca dei riti e del culto della dea Kāmākhyā, “colei che è chiamata desiderio”, dove sta il cuore vivente di un nucleo molto più antico “considerato una delle vene originarie del fenomeno tantrico indiano nel suo complesso”. In una regione benedetta dalla presenza dell’acqua e da colline rocciose, su una di queste, la Collina Blu nella città di Guwahati, sorge il complesso templare dedicato alla dea Kāmākhyā che si vuole costruito, nel suo nucleo fondativo, da Kama, il dio del desiderio.

Indologa e docente di yoga, l’autrice rivela nell’introduzione che lo scopo, non facile, del suo viaggio è quello di “investigare alcune valenze fondanti dello yoga tantrico, riscoprendo la rilevanza della matrice femminile nella religiosità hindu”. Non facile anche per l’aspetto di segretezza che circonda una ritualità di tipo iniziatico-esoterica. In quella devozione dei primordi, è ancora vigoroso il culto della Dea, cuore pulsante del tantrismo nel grembo accogliente dell’India: Lei, materna e provvidenziale, è l’immagine divina più amata anche nel suo aspetto più oscuro, orrido e temibile, quello di dispensatrice di morte, necessario passaggio di trasformazione.

Vengono poi analizzate la genesi e i significati salienti dello yoga, l’origine semantica e simbolica del fenomeno tantrico nel suo primo manifestarsi in quell’amalgama di femminile sacro intriso da forti elementi tribali; affermando inoltre che, prima dell’XI secolo, le donne avevano un ruolo primario nel tantrismo delle origini, a dispetto della sottomissione in cui vivevano nella società bramanica.
A Kāmarūpa, antico nome dell’odierno Assam, nel tempio principale di Kāmākhyā è custodito il più eminente pīțha, luogo di pellegrinaggio e di venerazione della Dea, che ospita uno dei resti più significativi generati dal suo smembramento: la yoni/la vulva di Sati, uno dei tanti nomi della Śakti, la potenza femminile primordiale alla radice del culto tantrico. I pīțha che accolgono le parti della Dea sono cinquantuno, sparsi su tutto il territorio indiano.

Il mito all’origine della storia è raccontato nel Kalika Purana, un testo molto antico della religiosità hindu, composto proprio in Assam. Vi si narra di come un demone-bufalo minacciasse l’intero universo, e l’unico in grado di annientarlo fosse il dio Śiva che, tuttavia, era in profonda ascesi e niente e nessuno poteva distoglierlo dal suo samādhi. Il dio Brahmā chiese allora aiuto alla Grande Madre primordiale, Ādi Śakti, custode delle leggi dell’universo.

La Dea accetta di incarnarsi col nome di “Satī”, la signora dell’essere, “Colei che è”, “la vera”, parola che nel tempo è venuta a significare il sacrificio rituale delle vedove sulla pira del cadavere del marito, rito orrendo vietato dai tempi della dominazione inglese. Satī è la Grande Dea che nel mito sposa, amandolo e riamata, il dio Śiva. Ma a questa unione si oppone il padre di lei, il grande sacerdote Dakșa, che non è felice di vedere la figlia vicina a un genero così anti-convenzionale, che passa lunghi periodi in ascesi, quando non si aggira per crematori, cosparso di cenere. Profondamente offesa per il mancato invito al grande sacrificio del cavallo, che il padre ha allestito per gli dei, Satī decide di sovvertire la convenzione presentandosi al grande consesso come una furia, manifestando il suo aspetto più feroce e, da grande yoginī, scatena in sé il fuoco yogico, e si dà fuoco.

Se il principio femminile, Ādī Śakti, la Madre, potenza ed energia del creato, non viene riconosciuta nel suo ruolo, tutto langue e muore con lei. Śiva, impazzito dal dolore per la perdita di Satī, decapita il sacerdote Dakșa e inizia una Tandava, una danza distruttiva, portando sulle spalle quel che resta del cadavere dell’amata.

È in quel momento che Vișņu, il misericordioso, decide di porre fine al dolore di Śiva e col suo disco tagliente smembra il corpo della dea in 51 parti secondo alcune versioni del mito, in 108 secondo altre. Secondo la tradizione, i 51 pițha sparsi sul territorio indiano accolgono i resti della Dea.

Indagare nelle pieghe profonde del mito, in cui lo smembramento della Grande Dea, comune ad altre culture e coincidente all’eclissarsi del potere femminile, potrebbe dirci tanto della storia indiana nel momento di penetrazione degli Indoarii. Ma questa è un’altra storia.

Rendere omaggio nell’atto rituale al valore più grande, la vita, è il modo per ricongiungersi al divino, che in India è presente in tutte le infinite forme della manifestazione. Il culto di Kāmākhyā si esprime nel risveglio quotidiano della Dea, fatto di una ritualità complessa di gesti “compiuti sul suo corpo” che assumono “il senso profondo del risveglio della coscienza”. Il rituale quotidiano inizia, prestissimo, con il lavaggio della sua dimora, luogo sacro di identificazione della dea Kāmākhiā; i sacerdoti per primi devono sottoporsi al bagno rituale per poter “maneggiare il corpo della Dea”. L’acqua scorre costantemente bagnando la yoni in quella fenditura della roccia sotterranea, oscura, custodita dentro la terra: poter immergervi la mano, anche solo per pochi istanti, è il desiderio primo dei fedeli che giungono da ogni parte dell’India. La Dea amorevolmente “risvegliata, lavata e nutrita”, può così continuare a dispensare i suoi doni, in primis la vita che, in tutte le sue forme, ha bisogno di essere custodita e protetta nella sua trasformazione e nel fluido divenire delle cose, così da esorcizzare l’inaridirsi dell’esistente. L’aspersione ristoratrice fa sì che la Dea torni ad essere ogni giorno fonte di generatività, corpo vivo e vivificante per il fedele che, nella ripetizione dell’atto rituale, rinnova la “consapevolezza corporea prima che mentale” – concezione che si ritrova nel tantrismo tradizionale, e Kāmākhiā è il cuore stesso del tantrismo.

Nella ripetizione dei mudra, gesti codificati di arcaici rituali come l’antico nyasa, che vengono trasmessi in maniera iniziatica e in cui il tocco e i mantra sono relati a zone del corpo, si compie il “rito molto importante nella prassi tantrica” attraverso gesti che sono lontani da una mera ripetizione e che sono volti a richiamare divinità tutelari su parti del corpo stabilite. Qui risiede la possibilità di liberare il corpo e la mente nell’illimitato, in una coscienza aperta “dove l’aspetto concreto e tattile impronta intimamente la forma mentis religiosa hindu e in particolare il contesto assamese”. Nel quinto capitolo di “Il significato dello yoga” Gioia Lussana scrive: “Man mano che l’intimità con la natura della Dea si fa più stretta, l’adepto realizza attraverso il gesto rituale un avanzamento del suo percorso yogico collegato all’adorazione della divinità e, al tempo stesso, un livello sempre più alto di comprensione della realtà”.
Nell’unico gesto che include oltre al corpo la realtà tutta in una specie di processo alchemico.

Nel capitolo più lungo dedicato “Alla Dea fluida” vi sono ricchi rimandi a l’altro elemento che, come l’acqua, è dotato della capacità di fluire, connesso alla sessualità, alla Dea e alla potente vitalità femminile: il sangue che, con la Śakti tantrica, esprime la “forza vivificante che anima l’esistente” ad ogni livello. Il sangue femminile è l’essenza che porta la vita, racchiudendo in sé il fondamento più antico del sacro, connesso alla Madre Terra, importante fin dall’epoca preistorica.

L’archeologia ha restituito reperti del IV millennio a.C. che testimoniano una cultura della grande Madre a Moenjo Daro e Harappa, centri fra i più importanti in quella che viene definita la civiltà della Valle dell’Indo, le cui vestigia si estendono fino al confine con il Pakistan e l’Iran. Fra i resti affiorati dalla polvere del tempo ci sono, tra l’altro, le “pietre ad anello associate alla yoni”, relate probabilmente ai riti di rinascita. L’anello e la forma geometrica del cerchio, come sottolinea Gioia Lussana, si collegano al concetto di onnicomprensività, familiare alla natura plurima della Dea e alla sua qualità fluida; in forma di cerchio erano i templi delle Yogini. Circolari sono i magnifici mandala, psico-cosmogrammi perlopiù del buddhismo tantrico utilizzati per la meditazione, o gli Yantra, dipinti con disegni esclusivamente geometrici astratti, che ospitano la divinità di riferimento del clan, utilizzati come “congegni” atti al controllo della dispersione psichica.

La dea Kamakhya, come le altre dee del pantheon indiano secondo una credenza molto diffusa, mestrua in estate, quando la terra è particolarmente secca per rivitalizzare la sua capacità generativa, in corrispondenza al periodo dei monsoni e al rigenerato ciclo agricolo.

Nella religiosità arcaica, dove la rappresentazione della Dea è la yoni, la vulva era ed è “fuoco che brucia e braciere originario” dove gettare le offerte fluide del sacrificio, spesso il sangue di animali di sesso maschile, come a quietare quel fervore che dopo aver generato il vivente, proprio per il suo ambivalente aspetto, potrebbe distruggerlo. Secondo l’autrice, nonostante l’impegno brahmanico nel controllo del culto, proprio all’interno del fenomeno tantrico il principio femminile evidenzia il filone più trasgressivo, ribaltando le regole precostituite dell’ordine maschile con l’apporto delle caste più basse alla devozione popolare.

Molto ricca e complessa è la ricerca semantica della parola Madre, cui è dedicato il secondo capitolo. Per dire Madre si usa una parola indoeuropea dalla radice sanscrita, “Ma”, originariamente ricondotta alla Grande Dea, che ha il senso di “assegnare la misura a tutte le cose”: è il metro della vita perché della vita è la matrice.

La Madre è marga, “la via” sicura per non smarrirsi; e nei significati di “Matr” troviamo elementi che evocano l’immagine di un grembo che accoglie il continuo manifestarsi della vita. Nelle tradizioni pre-arie, le Mātŗkā, le piccole madri, vengono messe in relazione al culto delle dee dei villaggi e, secondo testi antichi di cui l’autrice fa precisa menzione, rappresentano un’estensione della Śakti. Inoltre, è accertata la stretta connessione con le Yoginī – il cui nome si presta a molti significati, come controparti dello Yogin, o come ascete dal potere sciamanico e in questo aspetto sono anche Dākinī, soprattutto del buddhismo tantrico, raffigurate come uccelli per la capacità di volare. In questo contesto, la Yoginī ha la funzione di partner sessuale nel rituale tantrico, che conserva sempre una matrice segreta e fortemente elitaria. La ritualità vivente a Kāmākhyā richiede un addestramento duro e rigoroso, solo per iniziati, anche se esiste a lato una ritualità più popolare, di massa.

Dal tantrismo più popolare al più evoluto non viene mai meno il trait d’union della matrice femminile. Il ruolo della donna è lo stesso della Natura, di custode del mondo, della sacralità della vita e di tutto ciò che si trasforma e si rinnova costantemente, di essere vivente che dà la vita ad altro vivente. Quando il fenomeno tantrico arrivò nel Kashmir, i grandi Yogin medievali, filosofi raffinati di una tradizione esegetica, operarono una rottura significativa con l’ortodossia bramanica indiana.

La parte di felicità che si trova in ogni piacere della vita quotidiana è presa di coscienza del proprio sé”, è una frase emblematica che non intende minimamente riassumente il pensiero di Abhinavagupta, uno dei giganti del tantrismo Kashmiro. L’Assoluto non avrà più una connotazione statica e definitiva. “Nel sapersi trasformare risiede il divino”, nel saper espandere senza forma i propri confini, nel viversi in un corpo illimitato, immersi nella vastità dello spazio.

Questo libro di Lussana è uno studio complesso sugli aspetti del sacro femminile collegati allo yoga tantrico, in capitoli e sotto-capitoli densamente ricchi e sfaccettati a seconda delle diverse ramificazioni, culti e tradizioni. Heinrich Zimmer, grande studioso dei miti dell’India, sostiene che solo viaggiando per regioni lontane, e non solo fisicamente, in “terre sconosciute”, il significato interiore che guida la nostra ricerca ci sarà rivelato. E Gioia Lussana ricorda alle sue lettrici e lettori che in fondo, più di ogni altra prassi rituale, ciò che mette in relazione il devoto con la sacralità della Dea è “toccare la vita” nella sua multiforme varietà divenendo letteralmente parte di quel flusso, scorrendo con esso, dissolvendosi in esso.

Eleonora Paniconi

 

Che cos’è il Tantrismo? Parola che non esiste in sanscrito e si incontra in India solo in epoca contemporanea. Indefinibile in poche parole. Un atto di fede nel sacro alla ricerca del mistero ultimo, una corrente religiosa, una serie di pratiche rituali, una visione filosofica e molto, molto altro, ma sopra ogni altra definizione la possibilità di vivere la vita come rito, nella sua sacralità, in ogni suo aspetto: “una percezione del cuore, vero centro della coscienza”.

I Purāna: Sono testi della letteratura indiana, di materiale eterogeneo, una raccolta di storie dei tempi antichi. Le versioni popolari, o proto-purāna, si mutarono in seguito in modelli sacerdotali di Purāna, per lo più connessi alle figure di Vișņu e Śiva. I Purāna più antichi risalgono al VI sec. d.C. Furono strumenti per far giungere gli insegnamenti dei Veda anche agli illetterati, non solo di caste più basse, ma anche alle donne, tradizionalmente escluse dall’istruzione.

Śakti: “Potenza o energia divina” personificata e identificata come femminile e dinamica, capace di dare vita al mondo fenomenico. Energia divina femminile personificata in una Dea. Nei Purana, le Śakti vengono indicate con vari nomi, ma tali definizioni non perdono mai di vista il concetto secondo il quale esse non sono che aspetti dell’unica e indivisibile Mahādevī. La nozione di śakti come personificazione dell’energia non ha un ruolo di primo piano nel vișņuismo; le attività benefiche di Vișņu vengono compiute dai suoi avatāra.

(I termini Purana e Śakti sono estratti dal Dizionario dell’Induismo di M. e J. Stutley, Ubaldini Editore).