“Era un tempo di guerra…” In memoria della cantautrice irochese Joanne Shenandoah

Nell’immaginario collettivo occidentale, una società equa e pacifica che si prende cura delle nuove generazioni, è qualcosa che non può che esistere in un non-luogo della mente, l’utopia.

In questa convinzione si manifesta tutta la presunzione di superiorità assoluta della civiltà occidentale, che si pone implicitamente come paradigma unico di ciò che è e può essere “umanità”. Perciò, dove essa fallisce, nessun altro può riuscire.

Ancor più difficile da accettare, secondo il paradigma corrente, è che una civiltà possa mettere in atto dei meccanismi e delle strategie per “guarire” da un periodo di sconvolgimento dell’assetto sociale e dei valori originari di pace ed equità, poiché la nostra storia sembra configurare l’innesco della violenza e della sopraffazione come una pallina su un piano inclinato, un processo inarrestabile che porta a un aumento esponenziale dell’efferatezza, e non si ferma finché non raggiunge la distruzione e la disgregazione totale.
Fermare il processo prima che la violenza conduca alle estreme conseguenze, appare impossibile.

Perciò, l’antropologia ufficiale tende di solito a immaginare le culture indigene, soprattutto quelle pacifiche, come sistemi statici, che sono rimasti uguali da centinaia di migliaia di anni: questo libera lo studioso occidentale dal fastidioso peso di accettare l’idea che la pace non sia frutto di una sorta di “primitiva ingenuità”, di un’infanzia della cultura e del pensiero, ma di un complesso sforzo collettivo per il mantenimento di un equilibrio dinamico.

La convinzione della staticità delle culture indigene rassicura il pensiero occidentale nel fatto che solo nel caso dell’Europa e delle culture ad essa vicine si possa parlare di storia, progresso, evoluzione, civiltà.

Ma cosa succede se una società che ha conosciuto la guerra, la sopraffazione, il patriarcato, è stata capace di lasciarsi alle spalle la guerra e di ricostruire su nuove basi, attraverso un’evoluzione spirituale e culturale, la “Legge della Pace”?

Nel 2018 ho avuto il privilegio di intervistare, per la testata Sulsud.it, la cantautrice Joanne Shenandoah, un’irochese della nazione Oneida, membro del Clan del Lupo, che si trova nello Stato di New York, deceduta nel 2021.

Joanne Shenandoah è stata portavoce per la pace, per i diritti delle donne e dei bambini, e una dei fondatori dello Hiawatha Institute for Indigenous Culture.

“Erano tempi bui, tempi di guerra” raccontava, “quando il Pacificatore viaggiò di comunità in comunità, diffondendo la good mind (lett.: buona mente) e insegnando le leggi della pace. I primi a seguirlo furono Hiawatha e Jigonhsaseh, la prima Madre del Clan. Alla fine, attraverso la musica e il canto, i popoli riuscirono a perdonare, e decisero di vivere in un mondo senza guerra.”

La storia della federazione Haudenosaunee, o irochese, racconta della capacità di una società egualitaria, matriarcale, di risorgere e ricostruire la pace e l’uguaglianza dopo secoli di oppressione patriarcale. Joanne Shenandoah vi ha dedicato un album, dal titolo The Peacemaker’s Journey, interamente in lingua oneida.

Per secoli la società irochese era stata oppressa da una casta sacerdotale maschile, il cui capo era Tadodaho, uno sciamano potentissimo, che si narra portasse serpenti vivi tra i capelli. A lui è dedicata una canzone dell’album dal ritmo oscuro e profondo, Tadodaho – Snakes in His Hair.

Una guerra civile ebbe inizio. Una delle Madri dei Clan, Gaihonariosk, guidò il gruppo che sarebbe diventato il popolo Mohawk lontano dal dominio dei sacerdoti.

Sotto la sua guida fu sviluppata una nuova forma di sostentamento, l’agricoltura basata sulla coltivazione del mais. Il popolo di Zea Mays, la Nonna del Mais, si mosse dall’Ontario all’attuale stato di New York intorno al 900 della nostra era. Emissari di Pace furono inviati a diffondere la Via del Mais [1].

Fu Jigonsaseh, Madre del Clan, a ideare un nuovo sistema sociale che avrebbe accompagnato la Via del Mais. A lei è dedicata la canzone Mother of Nations.

Il Pacificatore chiese a Jigonsaseh di unirsi a lui e insieme diffusero la Great Law of Peace (Grande Legge della Pace), che restituiva alle donne il ruolo di custodi della pace, dei lignaggi e della Madre Terra.

La Madre Terra è dove viviamo, è il nostro pianeta, che ci nutre, ci sostiene. Tutto ciò che viene da lei ci dà vita. Lei è la nostra madre, viviamo in lei proprio come viviamo nel grembo di nostra madre. Lei è l’acqua, gli alberi, le piante, le erbe medicinali, è tutti i frutti e le verdure.

Joanne Shenandoah l’ha celebrata nella sua canzone Dancing on Mother Earth (album Eagle Cries).

La guerra civile finì quando sempre più persone rifiutarono di combattere e si unirono alla Via del Mais; anche Hiawatha, capo guerriero e generale della casta sacerdotale, si unì a Jigonsaseh e al Pacificatore.

Tadodaho scappò su un’isola con gli ultimi sacerdoti rimasti fedeli a lui.

Fu così che Jigonsaseh chiamò sulle spiagge del lago che circondava l’isola tutti gli irochesi che si erano uniti a lei, che avrebbero più tardi formato le attuali Cinque nazioni irochesi2. Per due volte mandò il Pacificatore e Hiawatha e per due volte Tadodaho li respinse provocando una tempesta; finché i due intonarono il Canto della pace, creato da Jigonsaseh.

Tadodaho non fu ucciso, ma fu invitato a diventare il primo a presiedere il Gran Consiglio della Lega Haudenosaunee, se avesse accettato la Via del Mais e la Pace.

Tadodaho accettò l’offerta, e da allora tutti gli uomini che hanno ricoperto la carica che lui ricoprì, hanno portato il suo nome.

Come raccontava Joanne Sheandoah, la saggezza irochese insegna che “ogni cosa ha una sua canzone, e la vibrazione che ci trasmettiamo gli uni con gli altri, attraverso il suono, può guarire o fare del male. Diverse chiavi influiscono su parti diverse del nostro corpo. La vibrazione della musica è molto potente; gli Irochesi hanno melodie che fanno crescere le piante. Anche la nostra Terra ha un suono.”

Come la musica irochese, la musica di Joanne Shenandoah, ha un suono dolce e profondo, è musica di guarigione.

A proposito del gesto con il quale la saggezza di Jigonsaseh fu capace di mettere all’angolo Tadodaho, per poi includerlo come tassello fondamentale nella costruzione di una nuova società, questo rappresenta in maniera archetipica il pensiero e il modo di vivere irochese: una società che, prima dell’arrivo dei coloni inglesi, non conosceva il concetto di guerra come progetto di annichilimento totale dell’avversario.

Contrasta profondamente con la nostra cultura il tirarsi indietro davanti ad atti di violenza o di guerra, senza impegnarsi in uno sforzo collettivo per la pace. Per esempio, gli Irochesi usavano un gioco chiamato Lacrosse, per appianare le controversie, come alternativa alla guerra. Non si trattava di uccidere persone: lo scopo del Lacrosse era di calmare le energie delle persone, per poter prendere decisioni che fossero il meglio per tutti.
(…) Possiamo vivere in un mondo senza guerra. E possiamo fare uno sforzo collettivo per mettere insieme le nostre menti, con good mind, e prendere decisioni per le future generazioni.

La storia irochese insegna che uno dei segreti fondamentali di una società pacifica è che il fulcro sia posto sulle madri, sulle nonne, quelle che Joanne Shenandoah celebra nel suo album Matriarch, coloro che, nel ruolo di Madri del Clan, “scelgono i capi e sono responsabili del benessere politico, sociale e spirituale del popolo”.

Sono loro a custodire la Madre Terra e i suoi frutti, che ridistribuiscono nella comunità a ognuno secondo le sue necessità. È per questo che nella società irochese non esistono classi o caste, e il concetto stesso che a qualcuno non sia permesso di partecipare e contribuire al benessere della comunità è impensabile.

In quanto madri e nonne, le Madri del Clan desiderano che i figli e i nipoti che hanno cresciuto con amore “vivano in un ambiente meraviglioso, che sia dolce, naturale, pulito”, “che siano sani, che vivano vite lunghe e belle”.

Sono le sole a poter dichiarare una guerra, e in quanto madri, non la dichiareranno se non sarà l’ultima risorsa.

La vita di Joanne Shenandoah è trascorsa a onorare il compito di dar vita a canzoni, per tenere in vita la propria cultura e per diffondere, a chi come noi è nato in una cultura di sopraffazione, ma cercasse una via diversa, il messaggio di pace della cultura irochese, l’antica Via del Mais.

 Faccio ciò che è mio dovere fare, come il Sole e la Luna nel Cielo, così come ogni persona ha la responsabilità di esprimere il bene nel proprio cuore e nella propria anima, per le future generazioni.

È un tempo di guerra; è stato un tempo di guerra, fin da quando riusciamo a ricordare e fin a quando la nostra storia scritta riesce a ripercorrere.

Che la musica di Joanne Shenandoah possa suonare per noi ancora, e aiutarci a guarire.

Link ad alcuni brani pubblicati su YouTube:
Joanne Shenandoah – To Those Who Dream
Joanne Shenandoah –  Womens Song
Joanne Shenandoah – Kahalu’nyuhe – with photos of Junal Gerlach

1 Barbara Alice Mann, “We Are the Soul of the Councils“. The Iroquoian Model of Woman-Power, in Heide Göttner Abendroth (ed.), Societies of Peace. Matriarchies Past Present and Future, Inanna Publications and Education, Toronto, Canada, 2009.
2 Heide Göttner Abendroth, L’America del Nord: crocevia di culture del Sud e del Nord, in Ead., Le società matriarcali. Studi sulle culture indigene del Mondo, Venexia, Roma (2012), pp. 423-65.

Teresa Apicella
Nata come classicista, ha conseguito di recente il Dottorato in Linguistica. Durante gli studi classici, dopo un periodo di smarrimento e assenza di vie, ha cominciato a seguire le tracce di un’altra storia dietro la storia ufficiale, ha abbandonato i sentieri tracciati dal potere maschile, per percorrere i sentieri ricurvi dell’eterno femminile.