Attivista e scrittrice, Alessandra Bocchetti è tra le fondatrici del collettivo femminista Studio Ripetta, una comunità di studio su storia, filosofia, antropologia, sociologia, letteratura.
Tra i suoi incontri, Luce Irigaray, Margherite Duras, Monica Vitti. Da un’idea di Michi Staderini, nel 1978 fonda con altre il Centro Culturale Virginia Woolf – Università delle Donne, la continuazione ideale dello Studio Ripetta. Nel 1984 scrive Discorso sulla guerra sulle donne un piccolo pamphlet per un pacifismo ragionato. Nel 2011 viene chiamata da Francesca Comencini a partecipare alla manifestazione del movimento Se non ora quando, intervenendo il 13 febbraio a Roma in Piazza del popolo.
Il suo ultimo libro, Basta lacrime, che raccoglie discorsi e interventi pubblici, è stato presentato nei giorni scorsi a Manfredonia, Foggia e Bari.
L’intervista che segue è della giornalista Modesta Raimondi.
Cosa è stato il femminismo? Cosa è adesso e che ruolo avrà nel futuro delle nuove generazioni?
Il neo-femminismo è stato una grande presa di coscienza cominciata quando una donna ha rivolto a se stessa la domanda: Che cosa è una donna? Non si riconosceva nella narrazione che l’ordine della società dava di lei e ha compiuto una grande spoliazione di sensi attribuiti da altri, cercandone di nuovi. Questo è il femminismo.
È stata fatta una grande decostruzione critica, forse la più grande spoliazione critica che il mondo della cultura abbia mai visto: esseri viventi che decidono di trovare altri sensi per sé e per i propri desideri.
Quale risposta ci si è date alla domanda Cosa è una donna? Quanto questa risposta è cambiata nel tempo?
Per rispondere a questa domanda le donne hanno dovuto raccontare di sé. Hanno lavorato in quella che si è chiamata autocoscienza. Si sono separate dalla società (è questo il senso del separatismo), per raccontare la propria vita e rendersi conto che la propria non era solo una storia personale, ma condivisa. Da queste storie condivise, le donne hanno poi tratto sensi diversi. I temi sono stati maternità, rapporto con la madre e rapporto con se stesse.
Maternità, rapporto con la madre e con se stesse. Quanta centralità hanno oggi questi temi? A che punto è il femminismo?
La ripresa di questo tipo di ricerca sarebbe augurabile: ha dato grandi frutti e facendola, la donna, costruisce un senso di sé profondo e forte. C’è bisogno di confrontarsi e di una narrazione riguardo ciò che sta a cuore.
La necessità femminile di definire se stesse trova attenzione oggi? A che punto si è con queste pratiche?
Oggi queste pratiche non si fanno. Io parlo dell’inizio del femminismo tra la fine anni 60, e l’inizio degli anni 70: il neo-femminismo appunto. Oggi non ci sono gruppi di autocoscienza. Mentre io credo che potrebbero essere qualcosa di augurabile, si tratta di una pratica utile ad acquisire senso di sé.
Crede che le giovani generazioni potrebbero averne bisogno?
Non potrebbero: ne hanno bisogno. Lottiamo con un femminismo acquisito, secondo cui tutte le donne sono femministe. Non è così. Essere femministe è difficile. Per farlo ci si deve assumere il senso e la storia delle donne, innamorandosene, nel brutto e nel bello. Quella delle donne è una storia pesante. La devi assumere su di te. Devi pronunciare un sì al tuo essere donna. Serve accettazione profonda per sentirsi quello che io chiamo Umanità femminile.
Come le sembrano le ragazze di oggi?
Credono che la libertà di cui godono e la capacità di riflettere su se stesse sia naturale ed acquisita grazie al progresso. Nessuno racconta loro (e qui faccio un rimprovero alla scuola) quello che le donne hanno dovuto fare per avere le libertà. La libertà è stata un oggetto di conquista delle donne che ci hanno preceduto. Questa gratitudine, che è necessaria per una coscienza di sé, non viene insegnata. È molto grave che la scuola non metta dentro la Storia anche la Storia della libertà femminile: una materia che riguarda l’intera società.
Come donne più adulte, sentite doveri e responsabilità nei confronti delle giovani generazioni? Ci sono limiti alla creazione di un ponte tra femministe storiche e ragazze della generazione Zeta (e non solo)?
Un incontro tra generazioni è sempre possibile. Io giro con il mio libro: non lo faccio tanto per promozione quanto per militanza. Lavoro per incontrare donne, sperando di incontrare giovani. Ma le ragazze sono nuove, piene di speranza, non credono che il mondo le si potrà rivoltare contro, che gli uomini non faranno loro spazio. Devono prima sperimentare questo. Con il matrimonio e la maternità, saranno più disposte ad accogliere questi discorsi.
Mi domando perché la scuola non faccia divulgazione di questa materia. Il mondo si difende dal femminismo. È impreparato alla libertà delle donne.
Ancora?
Si gli uomini sono impreparatissimi, e anche le donne lo sono. Bisogna imparare ad essere libere.
Cosa serve per imparare ad essere libere?
Serve una profonda coscienza di sé e della Storia. Serve la gratitudine per le donne che ci hanno fatto trovare condizioni migliori. Profonda coscienza di sé significa disporre della forza per affrontare un mondo impreparato alla tua libertà.
Quando si dice che le donne non vogliono gli uomini, bisogna riconoscere che sono gli uomini che non vogliono le donne. E non le vogliono in tanti campi, nella politica ad esempio. Non foss’altro perché a una donna che entra corrisponde un uomo che esce.
Che opinione ha sul femminismo di Chiara Ferragni? Come le è sembrato il suo intervento?
Mi è sembrato un buon intervento, soprattutto pensando a questa riflessione su di sé, questa coscienza profonda che riguarda se stessa nel mondo. È grazie a lei, grazie al Festival di Sanremo, che il messaggio va in giro e tocca luoghi e persone per noi irraggiungibili. È la comunicazione estrema di una donna che fa un monologo esibendo un rapporto con se stessa bambina: racconta le sue defaillance, le sue gioie e i suoi umori. È stato importante. Ammetto che mi ha dato un po’ fastidio il vestito perché c’è questa disgrazia che le donne debbano sempre mostrare il corpo più degli uomini. Però, a pensarci bene, il suo abito aveva il senso di un denudarsi metaforico. Lo giustifico in questo modo.
Le critiche che le vengono rivolte sono diverse. La filosofa Gancitano sostiene che non è possibile trattare il femminismo senza toccare il tema della new economy. Anche lei crede che femminismo e new economy debbano necessariamente andare insieme?
Esistono tante opinioni differenti e bisogna accettarlo. Le donne sono un mondo, ed essendo mondo non possono essere tutte in un punto unico e tutte d’accordo. Bisogna saper accettare altri punti di vista, anche profondamente divergenti. Io dico sempre che le donne devono imparare ad andare in disaccordo. In genere non reggono il disaccordo tra loro, hanno la sensazione di perdere qualcosa.
Crede che prendere parola in un luogo patinato come Sanremo faccia la differenza rispetto a fare parola in una piazza, in un teatro di quartiere? E non mi riferisco al numero di persone raggiunte, quanto al restare intatti nella credibilità.
Personalmente ho trovato Ferragni assolutamente credibile. Stiamo parlando di un atto di comunicazione molto forte. Non bisogna fare i moralisti dicendo che a Sanremo non si va. A Sanremo raggiungi milioni di persone: è una cosa positiva.
Il suo discorso, spogliato dal lusso, dalla bellezza del volto, dalla cornice mainstream, sarebbe stato meno divisivo? Quanto la percezione degli spettatori e delle persone in generale, è condizionata dal luogo in cui le cose avvengono?
Esiste la tendenza alla critica. Il mio metro di giudizio è molto semplice, quando incontro qualcosa, mi domando se la farei vedere o ascoltare ad una bambina. Il discorso di Ferragni lo farei ascoltare ad una bambina? Si. E allora vuol dire che il suo discorso va bene. Il discrimine sono gli occhi delle bambine. Ad una mostra in cui si espongono cose cruente, porterei una bambina? No. Il mio metro di misura è questo ed è molto pragmatico.