Lucie Azema: Donne in viaggio. Storie e itinerari di emancipazione – Irene Starace

Donne in viaggio. Storie e itinerari di emancipazione
Autrice: Lucie Azema
traduzione di Nunzia De Palma,
Roma, Tlon, 2022, pp. 245, € 18,00.

Nell’introduzione l’autrice, giornalista e lei stessa viaggiatrice, ci dice che le donne viaggiatrici della storia “hanno dovuto rompere non solo le catene che avevano attorno, ma anche quelle che avevano dentro. Così facendo, hanno provato non solo a essere libere di viaggiare, ma anche libere per viaggiare”. Questi sono i titoli delle due parti in cui è diviso il libro.

Nella prima si analizzano le caratteristiche della letteratura di viaggio maschile e i pregiudizi ripresi dalla cultura patriarcale e che, a sua volta, ha contribuito a rafforzare. La letteratura di viaggio maschile usa le tre tattiche della messa in scena della mascolinità: dimostrare, escludere, mentire, analizzate nel primo capitolo. Gli autori delle narrazioni di viaggio cercano in tutti i modi di dimostrare coraggio, spirito d’avventura, indipendenza, escludono le donne (e anche gli uomini diversi perché omosessuali o “effeminati”) attraverso il disprezzo, e inventano sfacciatamente avventure che non hanno mai avuto. La storia di John Smith e di Pocahontas è stata una di queste menzogne.

Mi ha colpito anche leggere che la regola “prima le donne e i bambini” nei naufragi non è esistita prima del 1852 e nel naufragio del Titanic si dovette far rispettare con le armi. Per il resto, gli uomini non hanno mai esitato a mettersi in salvo per primi, ma la leggenda degli uomini pronti a sacrificarsi per le donne “permette loro di circondarsi – nuovamente – di un’aura cavalleresca ed eroica”.

Azema prosegue analizzando i pregiudizi sessisti che le viaggiatrici hanno incontrato e incontrano tuttora. Il capitolo successivo è dedicato alla sessualizzazione delle donne dei paesi visitati dai viaggiatori nel corso della storia: un fenomeno in cui si combinano sessismo e razzismo. Ne vengono riportati vari esempi, di cui il più tipico è la mitizzazione degli harem, facilitata dal fatto che gli uomini non ci potevano entrare, e che ha resistito anche alla rappresentazione della loro realtà da parte delle viaggiatrici. Nello stesso capitolo viene analizzato il tema del turismo sessuale, che secondo l’autrice è l’eredità di questa mentalità colonialista, unita alla visione ultraliberista degli esseri umani come oggetti con le caratteristiche del luogo di produzione. Fortunatamente sembra che il sistema giudiziario stia prendendo coscienza della natura di questo fenomeno: viene citata una sentenza francese in cui non si usa il termine “turismo sessuale”, ma “spostamenti di cittadini francesi all’estero nell’intento di aggredire sessualmente o stuprare minorenni dietro compenso”. E al pari delle donne, nella letteratura di viaggio maschile anche i territori sono considerati oggetto di conquista e privati delle loro peculiarità per diventare rassicuranti proiezioni delle fantasie preconfezionate dei loro autori.

L’Occidente continua anche ad ignorare i viaggiatori e gli esploratori provenienti dal resto del mondo, come i fratelli iraniani Omidvâr, i primi documentaristi di viaggio al mondo, che hanno percorso più di cento Paesi, o il togolese Tété-Michel Kpomassié, il primo africano a visitare la Groenlandia.

Per tutte queste ragioni diventa imperativo “decolonizzare il viaggio”, decolonizzando innanzitutto il proprio sguardo. Un buon metodo per riuscirci è, secondo l’autrice, studiare la lingua del Paese in cui si vorrebbe andare partendo dalla grammatica.

Leggendo le narrazioni di viaggio anteriori agli ultimi cento anni, si legge anche di un’epoca in cui non esistevano ancora i passaporti, per cui chiunque poteva andare dappertutto. Azema ci ricorda che siamo abituate a pensare al passaporto come ad uno strumento di libertà, ma in realtà è nato come una forma di controllo degli spostamenti da parte degli stati. Mi ha fatto pensare al green pass: anche chi ha cercato di imporlo l’ha spacciato per un modo di tutelare la libertà di movimento, mentre serviva esattamente al contrario. Un’altra riflessione, questa volta dell’autrice, è che l’uso del passaporto non solo non tutela la libertà di movimento, ma riflette le disuguaglianze: praticamente solo i cittadini dei Paesi occidentali possono andare dove vogliono, mentre i passaporti dei cittadini dei Paesi africani e asiatici danno loro accesso legale solo ad un numero limitato di altri Paesi. Ecco da cosa nasce la tanto odiata “clandestinità” …

Nella seconda parte viene affrontata prima di tutto la questione della paura e del rischio. Come sappiamo, le donne che viaggiano vengono spaventate preventivamente agitando gli spettri delle cose terribili che potrebbero accadere loro, ma in realtà non corrono pericoli diversi da quelli che affrontano gli uomini. Anzi, Azema scrive: “Lo scarto tra la realtà e gli avvertimenti, tra ciò che vivevo e le imposizioni che ricevevo riguardanti la mia sicurezza […] ha fatto nascere in me l’idea di questo libro”. Cita anche esempi di donne che hanno continuato a viaggiare nonostante le malattie o la vecchiaia. Addirittura una di loro, Isabella Bird, era malata da anni e guarì solo quando cominciò a viaggiare. I rischi di molestie e violenze ci sono, ma sono gli stessi che si corrono rimanendo a casa o nel proprio Paese.

Perché il viaggio permetta di scoprire e di essere sé stessi (anzi, sé stesse) bisogna farlo da sole. “Non si è mai così autentici come quando si può contare solo su sé stessi”. In viaggio, la “stanza tutta per sé” woolfiana acquista un significato nuovo e ancora più liberatorio, perché “il viaggio e la sua solitudine fanno sì che le donne si riapproprino non solo del fuori, ma anche del dentro, perché esso genera un andirivieni dell’uno verso l’altro, e lega questi due spazi fino a confonderli e formarne uno solo: il territorio intimo della viaggiatrice”.

Un altro tema generalmente ignorato, ma affrontato nel libro, è la maternità in viaggio: sono esistite anche donne che hanno avuto e cresciuto figli durante i loro viaggi. Le due cose non sono inconciliabili ed è importante trovare il modo di non essere costrette a rinunciare né all’una né all’altro.

L’ultimo capitolo, il più intenso, si sofferma di nuovo sul viaggio come esperienza di liberazione per le donne: “La ricerca di una coerenza personale che s’innesta nello spazio – come se tutte le dimensioni (quelle dell’esterno e dell’interno) formassero una serie di cerchi concentrici – è il vero cammino che porta alla liberazione” e “rifiutare di essere dominate vuol dire rifiutare di dominare. Vuol dire creare un rapporto da pari a pari con il mondo, un’armonia condivisa, un equilibrio tra l’essere umano e la natura […], in una logica di coabitazione, di coevoluzione”.

Ho dovuto sintetizzare all’estremo il contenuto di questo libro documentatissimo, appassionante e originale nel parlare della propria esperienza vissuta, ma spero davvero di aver fatto venire la voglia di leggerlo!

Irene Starace