Questo articolo recensisce l’interessante libro con il medesimo titolo scritto da Gabriella Corona, ricercatrice del CNR, appunto sulla storia delle trasformazioni che l’ambiente naturale della penisola italiana ha subito nel corso della nostra storia. Corona è allieva di Piero Bevilacqua, storico e autore di studi interdisciplinari in cui chiaramente appare che il problema principale, fonte di tutti gli altri che l’ambiente ha – e non solo l’ambiente ma noi stessi in quanto specie – è la ricerca del profitto. Nel capitalismo, per “far marciare l’economia” che altrimenti si ferma principalmente a causa della disoccupazione (se lo stato non vuole porvi rimedio) è necessaria l’espansione della spirale che da una certa quantità denaro investito deve portare a una quantità di denaro maggiore, con o senza la merce in mezzo.
Il principale difetto del pur pregevole Breve storia dell’ambiente in Italia (Il Mulino, 2015) non è affatto la brevità – è un volume comunque molto denso, ben scritto, affascinante. Ma mentre il maestro scrive a chiare lettere Il grande saccheggio. L’età del capitalismo distruttivo (Laterza, 2011), l’allieva descrive con vaghezza le cause delle devastazioni ambientali che documenta. L’autrice suppone che il destino naturale delle società umane sia l’espansione economica in termini di Pil – cioè l’aumento degli affari, con relativo aumento della circolazione di denaro. Il Regno Unito, patria dell’industrialismo, è arrivato per primo a questo traguardo di espansione economica/monetaria apparentemente incessante, poi imitato da tutte le altre società, anche grazie all’esportazione di capitali. Questa è la teoria della modernizzazione: esistono molte e varie società premoderne e una sola società moderna (ora appunto globalizzata) verso cui tutte tendono; gli ultimi 150-200 anni di industrialismo sono l’inevitabile progresso cui arriva l’intera specie umana. Ma questo modo di produzione è l’eccezione della storia.
La naturalizzazione del capitalismo e del liberalismo però sono spiegazioni inaccettabili delle dinamiche storiche, e se il male per l’ambiente è stato il capitalismo liberale, non funzionerà nemmeno il rimedio proposto alla distruzione ambientale documentata da Corona: il capitalismo green. Pur rimanendo capitalismo, convertirà miracolosamente tutti i problemi che lo stesso capitalismo ha creato in soluzioni? Ne dubito. Se la spirale del profitto non si ferma, non ci può essere fine al degrado ambientale: tutto deve essere convertito in denaro e tutte le regole che lo impediscono devono essere infrante. Infatti le mafie fanno affari con i politici che abbattono le regole, o che lasciano che rimangano inosservate. Per il capitalismo le mafie che spostano i rifiuti nei luoghi dei poveri dentro e fuori l’Italia non sono il problema, come scrive Corona, bensì la soluzione. Questo ha dimostrato la storia e questo non può essere nascosto coltivando un’illusoria speranza nel salvifico progresso, perché il progresso è stato precisamente il degrado ambientale. (Mondadori è in ciò più coraggiosa del Mulino, perché questa proposizione la si può leggere chiaramente in L’Italia intatta di Mario Tozzi, uscito lo scorso anno.)
Specialmente alla luce della lettura di Fossil capital. The Rise of Steam Power and the Roots of Global Warming (Verso, 2016) di Andeas Malm appare un altro difetto del libro di Corona. Lo studio di Malm trova le radici dell’attuale crisi climatica non nell’industrialismo ma nella sua svolta “carbonifera”, quando per convenienza politica più che economica (cioè per mantenere il dominio sui lavoratori) gli industriali abbandonarono l’energia idraulica. Corona glissa sulle fonti di energia usate nel corso dell’industrializzazione della penisola e omette dati importanti, forse non ritenendoli tali. Se apprendiamo grazie a lei che la totalità dell’energia usata agli inizi era fornita dall’acqua, era cioè un’energia rinnovabile e senza emissione di gas di serra, nei capitoli successivi l’apporto idraulico svanisce misteriosamente dalle statistiche citate, senza alcun commento. Visto che ciò che ha dato impulso al cambiamento climatico è l’uso industriale dei combustibili fossili, non sembra così trascurabile per una storia delle devastazioni ambientali capire come e perché tale deleterio cambiamento sia avvenuto anche in Italia.
Anche in Gran Bretagna all’inizio dell’industrializzazione le fabbriche traevano energia solo dall’acqua. L’oggetto dell’indagine di Malm è proprio l’avvento dello stock al posto del flusso, cioè del carbone al posto dell’acqua, ricostruendone le tappe e le cause, cioè le relazioni tra le classi, l’individualismo borghese, la brama di profitto, la complicità dello Stato con gli industriali.
Infine Corona fa propria la teoria maltusiana – o per lo meno parla della sua versione semplificata – secondo la quale l’aumento della popolazione è naturale. Proprio all’inizio del libro scrive ad esempio che una delle spinte primarie alla profonda trasformazione dell’ambiente a partire dall’Ottocento è stato l’aumento della popolazione: “indusse la ricerca di nuovi spazi e di nuovi territori”. Nel mio lavoro Il peso dei numeri (Asterios, 2019) ho raccolto invece le teorie e le loro prove storiche su una dinamica esattamente contraria: il capitalismo per espandersi ha bisogno di nuove generazioni di lavoratori sempre più numerose, ottenendole facilmente quando le donne erano – o sono – sottomesse, mentre è il processo di emancipazione femminile ad aver diminuito il numero di figli per donna. Per fare una sintesi brutale: nelle società tradizionali non vigeva affatto una fertilità “naturale” altissima, bensì proprio una ricerca, col controllo delle nascite e delle morti, di quel punto di equilibrio con l’ambiente naturale e sociale che il capitalismo ha scartato, ricercando piuttosto la moltiplicazione all’infinito della forza-lavoro.
Detto ciò, il libro è denso di importanti informazioni e la sua ricostruzione storica è assai apprezzabile: veniamo a sapere della vastità e longevità degli usi civici e comunitari, con le connesse – sagge – limitazioni al prelievo di risorse dall’ambiente. Apprendiamo che quel quadro di regole tradizionali è stato distrutto solo con l’Unità d’Italia sotto la guida liberale. Approfondiamo la conoscenza delle città come ecosistemi. Ripercorriamo le tappe dell’ambientalismo intellettuale e politico italiano, anche se qui devo inserire un’ultima nota critica: l’assenza di menzione per i lavori di Aldo Sacchetti, di cui il più importante è L’uomo antibiologico. Riconciliare società e natura (Feltrinelli, 1985). Se l’autrice non lo conoscesse, gliene raccomando caldamente la lettura.