Ma davvero le fiabe sono maschiliste?
Nel tempo effimero delle riscritture pseudo-femministe, una riflessione sull’origine matriarcale della fiaba
Ha fatto molto discutere, di recente, l’uscita della nuova live action della Disney, che riprende con attrici e attori in carne e ossa le vicende del classico Biancaneve (1937), il primo film di animazione dell’allora Walt Disney Production. Il film ha ottenuto risultati disastrosi al botteghino e pessime recensioni sui più noti siti, e passerà probabilmente alla storia come uno dei più grandi flop della nota compagnia americana. Ciò che viene rimproverato alla Disney, oltre al fatto di aver inutilmente – e infelicemente – rimaneggiato quello che è senza dubbio un grande classico, è di aver voluto svolgere una smaccata operazione politica, con paradossali punte di esagerazione e mancanza di genuinità.
A cadere sotto la mannaia delle critiche, infatti, è stata proprio una certa affettata e inconsistente rilettura “femminista”, che ha irritato il pubblico, coinvolgendo ugualmente – e questo è un dato davvero molto interessante – donne e uomini provenienti dai più differenti contesti sociali e politici. Per la prima volta, infatti, non c’è stata una divisione tra destra e sinistra, né si sono manifestati i soliti comparti stagni tra progressismo e conservatorismo, in quello che è stato un coro di proteste contro un’operazione ritenuta a tratti “blasfema” da parte del colosso mediatico americano.
Alla Disney, in sintesi, non viene solo rimproverato di aver svolto una gelida e bislacca operazione ideologica, ma soprattutto di averlo fatto scegliendo di intaccare la fiaba di Biancaneve. “Qualcosa non quadra”: una sorta di sesto senso dice alle persone che qualcosa di fondativo, di sacro, viene attaccato. Pur non sapendo perché, molti provano un senso di forte ribellione interiore ed è importante dare un nome e una storia a questa sensazione.
Partiamo dunque da cosa c’è che non va, e cerchiamo poi di giungere all’origine di quel nucleo sacro di cui molti intuiscono l’esistenza.
La guerra al Simbolo
Il primo difetto del film, che lo riconnette peraltro a un certo tipo di pensiero postmoderno che domina il mondo dei media, è il letteralismo.
Si tratta cioè della tendenza a ignorare l’esistenza del linguaggio simbolico, dell’espressione figurata, della metafora e dell’allegoria, ovvero dei fondamenti non solo del linguaggio mitico e fiabesco, ma soprattutto del linguaggio umano stesso(1). Questo tipo di pensiero, fortemente regressivo, è alla base di tutti i live action, e in generale di qualsiasi riscrittura mainstream della fiaba oggi. La fiaba però è, come vedremo, Mito ed è quindi, nella sua stessa natura, espressione simbolica. Ogni persona, ogni ruolo – re, regina, principe, principessa, serva – è allegoria; ogni evento, ogni situazione è simbolo.
Molte delle critiche rivolte alle fiabe vengono proprio dall’ignoranza di questo aspetto e dall’interpretazione letterale di ogni cosa che in esse avviene. Questo tipo di pensiero è alla base delle tante critiche feroci rivolte alle fiabe come esempi di violenza, brutalità, abuso e simili.
Perciò, attaccare elementi della storia di Biancaneve, come per esempio il rapporto del Principe con la protagonista, che l’attrice Rachel Zegler ha descritto come “stalking” durante un’intervista, dimostra una mancata conoscenza del linguaggio simbolico, se non, addirittura, la volontà, da parte di soggetti molto meno ingenui dell’attrice, di demolire intenzionalmente tale tipo di linguaggio.
A guardare i grandi fenomeni mediatici di questi tempi, infatti, sembra di poter identificare una sorta di intento nascosto perseguito dai media di ogni orientamento e colore politico: la guerra al simbolo e al linguaggio metaforico. Si tratta di una guerra funzionale all’odierna venerazione per la tecnica e a uno scientismo senza scampo, che inaridisce l’immaginario e asseta lo spirito.
Uno pseudo-femminismo copertamente reazionario
Un effetto di questo pensiero, evidentissimo nel live action di Biancaneve, è l’interpretazione del topos letterario della “monarchia”, della “figlia del re”, della “matrigna” in senso squisitamente letterale. Mentre, infatti, tali ruoli vengono solamente accennati nelle fiabe originali e nei primi adattamenti della Disney, a indicarne chiaramente il carattere metaforico-archetipico, essi vengono resi tangibili e materiali nel live action, risultando in una serie di paradossi.
Biancaneve diviene l’erede di una dinastia monarchica ben identificabile, e mostra più volte nel film il suo attaccamento al “padre”, come fonte indiscussa di legittimità, dunque del proprio diritto a regnare. Padre defunto che viene letteralmente chiamato “re buono” e viene reso prototipo astratto di una quantomeno dubbia “monarchia assoluta illuminata”.
La matrigna diviene allora una vile usurpatrice, incarnando così lo stereotipo patriarcale della donna maligna che si appropria illegittimamente del potere maschile e non è in grado di esercitarlo. Il film, insomma, diviene così una plateale celebrazione della patrilinearità, del diritto paterno, dell’immutabilità della gerarchia sociale e, addirittura, della bontà della monarchia!
Di fronte a questo, passa del tutto in secondo piano il tentativo di fare di Biancaneve una sorta di eroina femminista che diviene, utilizzando ancora le parole di Rachel Zegler, “la leader che sa di poter essere”. Nel film, infatti, sembra non esista alcuna alternativa pensabile all’eterna opposizione tra la monarchia buona (rappresentata dal lignaggio patrilineare) e la monarchia cattiva (rappresentata dalla regina usurpatrice). Sul finale, che stravolge completamente la fiaba originale e il suo significato mistico, è Biancaneve, ovvero la legittima erede di una monarchia patrilineare, a innescare una ribellione – peraltro del tutto retorica e fasulla – da parte del popolo, che la segue fino alle porte del castello. A confermare, dunque, che un cambiamento può venire sempre e solo dalla classe dirigente in carica e dalla sua autolegittimazione, che ripristina l’ordine gerarchico che essa ritiene giusto, in nome di una non meglio spiegata “monarchia buona”.
Dietro una patina neanche tanto spessa di stucchevole pseudo-femminismo, in conclusione, il film sembra dirci due cose:
- Il patriarcato è l’unica forma di società possibile.
- Ogni emancipazione femminile può avvenire sempre e solo all’interno del diritto paterno, che è l’unico diritto pensabile.
Insomma, per dirla a mo’ del Gattopardo: “bisogna cambiare tutto perché nulla cambi”.
Per non parlare dei nani…
E vogliamo parlare della “questione nani”? La punta più alta di grottesco è stata raggiunta dal bizzarro “dilemma dei nani” e dalla sua ancor più bizzarra soluzione.
Tutto comincia dalla polemica di Peter Dinklage, noto attore affetto da nanismo, sull’eventuale impiego di persone nane per interpretare i sette nani, una scelta che, secondo l’attore, avrebbe alimentato gli “stereotipi sui nani”.
La Disney ha così pensato di mettere d’accordo tutti utilizzando la computer grafica. Ma questo ha scatenato nuove polemiche, perché, pensate un po’, ciò ha fatto sì che non si impiegassero veri nani, e che così le persone affette da nanismo venissero lavorativamente discriminate.
Questo, più o meno, il sunto della polemica demenziale sulla “questione nani”: una fotografia abbastanza impietosa dell’attuale stato di dissociazione e derealizzazione della classe intellettuale americana, ma anche un eminente esempio del fenomeno di cui parlavo prima, il letteralismo.
Perché l’unica vera questione non è stata nemmeno sfiorata. I nani di Biancaneve non sono dei veri nani, non lo sono, quantomeno, in senso letterale. Essi sono, ancora una volta, Simbolo.
Ma non affrettiamo le cose, riprenderemo i nani al momento giusto. Non possiamo proseguire, infatti, se prima non abbiamo parlato di lui…
La cancellazione del Principe e la critica delle “fiabe maschiliste”
Passiamo, dunque, all’elefante nella stanza, al grande assente della riscrittura Disney. Proprio lui, il grande vituperato della fiaba: Il Principe.
Nel film, semplicemente, il Principe non c’è. È sostituito dal capo di un gruppo di ladri gentiluomini ribelli, sostenitori dell’unico vero re, Riccardo Cuor di Leone, ah no …
Sorvolando sulla similitudine a dir poco comica con la storia di Robin Hood, è chiaro che la Disney ha voluto in questo caso fare eco alla più nota critica rivolta alle fiabe, quella di prospettiva “femminista”.
Oggetto di questo genere di polemica è l’importanza rivestita dalla figura del Principe e la presunta passività e inconsistenza dell’eroina. In generale viene attribuito alla fiaba un ruolo di “dispositivo di potere patriarcale” volto a depotenziare, fin da bambine, l’autonomia esistenziale delle donne.
Ma le cose stanno davvero così? Direi che ora la matassa è abbastanza imbrogliata. L’atteggiamento letteralista ha prodotto allucinazioni collettive, strane paranoie, poi ha deciso di porvi rimedio giungendo al parossismo dell’assurdo. Per sbrogliare questa intricatissima matassa, è necessario, come sempre, andare all’origine.
Altro che patriarcato! La fiaba è Mitologia matriarcale mascherata
La fiaba, come scrive Heide Göttner-Abendroth nel suo illuminante studio sullo schema mitico della Dea e dell’Eroe, non è altro che mitologia mascherata.
Ma che cos’è la mitologia, e perché viene mascherata?
Possedere una mitologia è un dato comune a tutti i popoli: in essa sono trasmesse, in maniera immaginale e condensata, le conoscenze sul cosmo, la concezione dell’esistenza e la storia condivisa di un’intera comunità. Il mito costituisce la controparte concettuale e narrativa del rito, che ne è invece l’aspetto vissuto e la fonte dal quale esso si crea e ricrea nel corso del tempo. A farla da padrone, nella Mitologia, è il Simbolo.
In questo linguaggio, il Simbolo non è semplicemente un segno, “qualcosa che sta per qualcos’altro”, ma immagine visibile di concetti invisibili, un modo per indicare ciò che sta oltre la soglia del mondo visibile e tangibile. È Archetipo, immagine primordiale, al di là di ogni spiegazione e razionalizzazione, capace di produrre significati sempre nuovi, restando in sé immutabile.
Passiamo dunque all’altro aspetto della mitologia fiabesca, il mascheramento. Perché mascherare la Mitologia?
La necessità di nascondere il patrimonio mitologico di una civiltà nasce quando una “nuova” civiltà, o una nuova cultura, le si sovrappone, rendendo illegittima la cultura sconfitta e le sue forme di espressione.
Per rintracciare l’origine della necessità di celare i contenuti del Mito, è importante spingerci fino agli ultimi secoli dell’Impero romano, quell’epoca nota come Età tarda, che è archiviata sbrigativamente nei libri di storia come un lungo tempo di decadenza. La cosiddetta età tarda fu in realtà il periodo di massima estensione e fragilità della compagine imperiale, una fase nella quale Roma aveva ottenuto sotto il proprio dominio vasti territori culturalmente autonomi, con popoli tendenti alla ribellione e, soprattutto, legati profondamente alle proprie tradizioni spirituali e sociali. Lo stesso valeva per le province, anche quelle più antiche, le quali, nonostante fossero economicamente e politicamente assoggettate al dominio romano, avevano conservato un ampio margine di libertà di culto, soprattutto nelle allora vastissime aree rurali.
Molti dei culti che persistevano in ampie regioni dell’impero risalivano all’età dell’Antica Europa, un’epoca caratterizzata da una società ugualitaria a forte carattere sacrale, incentrata sul sacro femminile. Proprio nella cosiddetta “epoca tarda” si assisté a una grande fioritura di riti e culti misterici di origine matriarcale, quali i misteri della Magna Mater Cibele a Roma, i Misteri Eleusini ad Atene e quelli egizi di Iside e Osiride, che giunsero a coinvolgere anche importanti esponenti dell’aristocrazia romana(2).
La grande contromisura imperiale, per contrastare la diffusione indesiderata di un culto capace di corrodere dalle fondamenta il potere di Roma, fu l’imposizione del “cristianesimo di Stato”, che ebbe inizio nel 380 con l’Editto di Tessalonica, che proclamava il cristianesimo religione ufficiale dell’Impero romano, e sanciva una condanna verso qualunque altra forma di culto. Un evento senza precedenti, che segnò un cambiamento nella struttura del potere in Europa, le cui conseguenze si riverberano fino ai giorni nostri.
La condanna della libertà spirituale dei popoli, infatti, sopravvisse all’Impero romano stesso, divenendo particolarmente spietata nel corso del Medioevo, nonostante la grande instabilità politica che caratterizzò quest’epoca, e i ripetuti tentativi di rovesciare il potere ecclesiastico.
Il Medioevo, tuttavia, fu caratterizzato da lunghi periodi di tumulto, ma anche da interessanti finestre pacifiche, nelle quali l’antico culto matriarcale conobbe importanti epoche di fioritura. Purtroppo però, l’alleanza tra la chiesa e il potere feudale risultò infine decisiva nel soffocare ogni opposizione. Queste circostanze di imposizione culturale determinarono la necessità, per evitare la persecuzione, di continuare a trasmettere la tradizione, ma in una forma camuffata, dall’apparenza il più possibile innocua. L’antica mitologia fu così semplificata e condensata in storie per bambine e bambini, che si tramandavano di madre in figlia, consolidando una pratica che è giunta fino all’epoca delle nostre nonne.
La materia della fiaba: Dee, eroi e iniziazione
Antiche dee, eroi, cariche sacerdotali furono nascoste dietro prototipi umani quali quello della madre buona, della madre cattiva, la figlia ultimogenita, il principe. Ma cosa racconta la fiaba, in realtà?
Dietro la patina di una storiella d’avventura per l’infanzia, l’ossatura fondamentale della fiaba racconta, sin dal prototipo di Amore e Psiche, un’iniziazione femminile.
In molte fiabe dei fratelli Grimm, la ragazza affronta diverse peripezie, che si svolgono di solito in ambientazioni fuori dall’ordinario, sotto terra, nel regno della misteriosa Frau Holle1, oppure nel suo analogo, la Foresta, dove risiede la Strega. Sia Frau Holle(3) che la Strega sono rappresentazioni semplificate di dee della morte e della rinascita, che insegnano alla fanciulla le arti fondatrici della civiltà: la tessitura, l’agricoltura, la preparazione degli alimenti, la conoscenza delle erbe e la magia.
Al culmine delle difficili prove, la ragazza si trova in uno stato di grande difficoltà, spesso espresso attraverso la metafora di “un lungo sonno simile alla morte”.
Bianca, rossa, e nera. La Dea addormentata
Passiamo dunque al significato della Biancaneve dormiente e dei suoi colori, elemento essenziale del racconto.
Il topos letterario della “bella addormentata” non è contenuto soltanto nell’omonima fiaba, ma è presente, in diverse forme, in molte altre fiabe, tra cui la stessa Biancaneve.
Durante il sonno della fanciulla, dorme la Terra, e appassisce tutta la vita intorno a lei.
Questo perché la fanciulla iniziata incarna la Dea Madre, l’unione dei suoi tre aspetti di ragazza, adulta, anziana, con i suoi tre colori sacri che, non a caso, sono quelli di Biancaneve: il bianco, il rosso, il nero (4).
Il sonno simile alla morte è una variazione sul tema della discesa negli inferi, che è presente nelle fiabe che coinvolgono il Regno nascosto di Frau Holle.
La discesa negli Inferi, infatti, altro non è che una morte iniziatica, identica, nel significato, al sonno di Rosaspina o di Biancaneve.
Il collegamento con il mito alla base dei Misteri Eleusini è evidente.
Nel mito greco(5) Kore, figlia della dea Demetra, viene rapita da Ade, che la fa Signora degli Inferi. Nei sei mesi dell’anno che lei trascorre nel regno sotterraneo della morte, la terra si addormenta. Il sonno della Dea è l’inverno, è la morte, che contiene sempre in sé la promessa della rinascita.
Il Principe
Non c’è nulla di più lontano del “bacio non consensuale” di cui si blatera spesso, in ciò che avviene con l’arrivo del protagonista maschile.
A operare il risveglio è proprio lui, il Principe. Egli rappresenta quello che nel mito delle origini era l’Eroe, il consorte della Dea. Colui che si rendeva degno di lei provando il proprio valore in difficili prove, analoghe e complementari a quelle affrontate dalla fanciulla.
La loro unione, in coincidenza con l’Equinozio di Primavera, risvegliava tutta la Natura e segnava l’inizio dell’anno nuovo.
Ma ritorniamo ai tanto vituperati nani…
Ora che abbiamo chiarito la cornice interpretativa in cui va collocata la fiaba, possiamo dire qualcosa in più su chi sono i nani.
Lungi dall’essere persone di bassa statura, o affette da nanismo, i nani sono creature mitologiche dalla forte valenza simbolica. Sono in numero di sette, numero sacro per
eccellenza, possono rappresentare le “sette sorelle”, le Pleiadi, immagine della Dea, che circondano Biancaneve, la Luna, in una congiunzione astrale carica di energie e significato.
Oppure, essi possono rappresentare i sette corpi celesti visibili del Sistema solare: Sole, Luna, Mercurio, Venere, Marte, Giove, Saturno.
Altro dato fondamentale è il loro legame con il mondo sotterraneo, dal quale traggono tesori. Emblema delle arti fondatrici dei popoli matriarcali, come la lavorazione del metallo, la ricerca dell’oro e la sua lavorazione sono simbolo dell’operazione di trasmutazione, e segnano un filo rosso che va dall’antica mitologia matriarcale all’esoterismo europeo, con i simboli della Grande opera alchemica(6).
Il cuore sacro della fiaba
Viviamo in un’epoca paradossale. E uno dei paradossi è che tutto questo “male” di cui veniamo ogni giorno inondati senza possibilità di fuga, ci impone di aprire gli occhi, di non dare nulla per scontato. Soprattutto, questo ci spinge a comprendere ciò che ancora ci sfugge, a prendere posizione, a individuare ciò che è sacro, e poi combattere per esso.
Perciò dico, a costo di sembrare folle, che la Disney, con la sua enorme gaffe, ha fatto un grande favore a milioni di persone, costringendole a vedere ciò che non vedevano, chiamandole a proteggere ciò che viene posto sotto attacco: il cuore sacro della fiaba, che è il cuore sacro perduto dei popoli occidentali.
Il futuro della fiaba
Se un futuro per la fiaba c’è, non è nella sterile polemica o nelle fredde riscritture ideologiche.
L’unico futuro possibile è, per citare Mary Daly, un “futuro arcaico”, fondato sulla conoscenza dell’origine.
Allora la fiaba si rivela non come un “dispositivo patriarcale”, ma addirittura come la testimonianza di una civiltà talmente “femminista”, da esserlo troppo persino per molte donne, e molti uomini, che oggi si attribuiscono tale appellativo. L’unica via per mantenere in vita la fiaba, e insieme ad essa la narrazione simbolica, è dunque quella di riportarla alla sua origine, di farne una narrazione e, perché no, una ricreazione consapevole.
Spostiamoci, dunque, dal dibattito effimero, dal confronto di opinioni che domani non saranno altro che pattume, e ritorniamo all’origine, a ciò che non ha tempo. È questo l’unico modo per mettere il punto a una storia orribile di menzogne e contraffazioni, e finalmente, andare a capo.
Teresa Apicella
NOTE
- È proprio dal trascendimento del letterale, dall’estensione del significato per mezzo di metafore, infatti, che nasce il linguaggio umano così come lo conosciamo. Il Simbolo è la base della comunicazione e il fondamento del linguaggio. Questa visione, che ha un suo precursore nel filosofo Giambattista Vico, è oggi la più accreditata nella linguistica evolutiva.
- Questo periodo si esprime in maniera emblematica nell’opera di Apuleio di Madaura, cittadino romano di origini berbere, autore delle Metamorfosi o L’asino d’Oro, romanzo dal tono semi-serio, che nasconde il racconto della propria iniziazione ai misteri della dea Iside. Qui è contenuta la fiaba di Amore e Psiche, prima testimonianza del genere, che contiene in sé l’ossatura tipica delle fiabe che ritroviamo più tardi in tutta Europa, e nella quale il ruolo di quella che sarà la Strega è attribuito – in maniera molto indicativa – alla dea Venere.
- La parola Holle rivela una parentela con la parola tedesca Hölle, Inferno, utilizzato per descrivere l’inferno cattolico. La parola, tuttavia, aveva in origine tutt’altra accezione, come dimostra l’ambientazione paradisiaca descritta in molte fiabe e il carattere saggio e bonario di Frau Holle.
- Non a caso, questi tre colori sono ripresi nella tradizione esoterica europea come i tre colori della Grande opera alchemica.
- Il mito di Demetra e Persefone, pur essendo giunto a noi da fonti greche, presenta un carattere di forte estraneità rispetto all’apparato mitologico greco, ed è probabilmente un mito pelasgico/cretese, appartenente cioè alla civiltà dell’Antica Europa, che risiedeva nella Grecia e nel Mediterraneo prima dell’arrivo dei Greci (Indoeuropei).
- Curioso come le arti metallurgiche siano spesso collegate, nel folklore europeo di tutti i tempi, a esseri di dimensioni inusuali, vale a dire straordinariamente piccoli, oppure straordinariamente grandi! Non solo i nani, infatti, sono segnalati come esperti dello scavo sotterraneo e della lavorazione dei metalli, ma anche Giganti, Ciclopi.
Forse le alterne vicende di fortuna dei popoli matriarcali, si riflettono in queste curiose, e brusche, alternanze di dimensioni.