L’Australia che brucia e si copre d’acqua: una riflessione sulla relazione fuoco/acqua

Questo è l’inizio de Il Sentiero della Terra. Integrarsi coi ritmi della natura, scritto nel 2004 da Starhawk e tradotto e pubblicato nella collana Le Civette – I Saggi di Venexia nel 2015.
Introduce a una riflessione diversa sulla relazione fuoco/acqua nell’equilibrio che sempre cerca la Natura e sulla relazione integrata e possibile tra Natura e Umani.


È una calda giornata di luglio, poco prima del tramonto, e con i miei vicini ci riuniamo sulla vetta di una collina, tra le montagne della costa settentrionale della California, per celebrare un rituale di protezione dal fuoco. In inverno, se tutto va bene, dalle nostre parti cadono fra i 200 e i 250 centimetri di pioggia e l’erba, gli alberi e i cespugli crescono folti e rigogliosi.
Da giugno a settembre, però, non cade una goccia d’acqua e la terra in estate diventa arida e la vegetazione brulla. La scintilla di una falciatrice, la brace di una sigaretta accesa, una bottiglia di vetro piena d’acqua che funziona da lente di ingrandimento possono scatenare un inferno che travolge indistintamente case e vite umane.

Qui si vive sotto la costante minaccia del fuoco e, allo stesso tempo, con la consapevolezza che la nostra terra ha bisogno del fuoco, brama il fuoco. La sua è un’ecologia ignea. Gli alberi che crescono nei nostri boschi hanno imparato ad adattarsi agli incendi. Le sequoie, con la loro corteccia spessa e porosa, resistono alla furia delle fiamme. Per sopravvivere ai roghi, il madrone, l’alloro e la quercia del tannino germogliano dalla corona sotterranea delle radici. In passato gli incendi creavano ampie radure che ospitavano i cervi e i loro predatori, vale a dire i coyote e i puma, e sfoltendo il sottobosco favorivano la crescita degli alberi ad alto fusto, che offrivano una barriera naturale alla proliferazione delle malattie. I Pomo, abitanti originari di questa regione, erano soliti bruciare regolarmente i boschi per tenerli in buona salute: così il manto erboso si manteneva basso, gli alberi riducevano l’inquinamento dovuto alle emissioni di anidride carbonica e i roghi si estinguevano velocemente e senza conseguenze devastanti. Oggi, invece, che il suolo boschivo è soffocato dagli sterpi e dall’erba secca, gli incendi si estendono a macchia d’olio, con conseguenze disastrose.
Sotto di noi si intravede la caserma dei vigili del fuoco volontari. Il territorio che si estende tutt’intorno è ad alto rischio di incendi: le profonde gole dei canyon ospitano sequoie, pini dell’Oregon, arbusti di alloro e madrone, mentre le radure, fino a cinquant’anni fa ricoperte da boschi di conifere giganti, sono invase da macchie di querce che, con il loro intrico di rami, offrono una facile esca alle scintille. Filari di aceri costeggiano il fiume e distese di roveri neri rivestono i pendii dei monti dove, fino a cinquant’anni fa, pascolavano i greggi. I campi sono costellati da alti cespugli secchi, pronti a incendiarsi.

Un tempo le praterie, con i loro cespi di piante native a radice perenne, restavano verdi per tutta l’estate, ma un secolo di pastorizia ha favorito l’insediamento di piante invasive di origine europea che si inaridiscono alle prime avvisaglie di caldo. Sparse qua e là sui monti ci sono piccole baite di legno, costruite per lo più una ventina di anni fa dai sostenitori del movimento ambientalista di “ritorno alla terra”. Sui crinali svettano sempre più numerosi i vigneti, ultimo intervento dell’uomo sul paesaggio originale. Alle nostre spalle, infine, c’è il relitto sradicato di un grande albero, a testimonianza del terribile incendio che nel 1978 divampò su questo monte, distruggendo migliaia di ettari di bosco.

Nell’attesa che arrivi il resto del gruppo, mangiamo insieme il cibo che abbiamo portato, fra una chiacchiera e l’altra. Una volta pronte, ci radichiamo respirando profondamente, grate per l’aria pulita che spira dall’oceano ai piedi della montagna. Immaginiamo le nostre radici che affondano nel terreno, sempre più in profondità, e sentiamo le asperità della roccia e la terra morbida e friabile che ci separa dalla faglia di Sant’Andrea, sotto di noi. Percepiamo il calore della lava che scorre ai nostri piedi e il calore del sole che brilla sopra di noi. Racchiudiamo in un cerchio i confini della terra che vogliamo proteggere: dalla cittadina di Cazadero a est fino al villaggio dei Kashaya Pomo a nord, e dall’oceano a occidente fino ai rilievi e ai dirupi meridionali. Invochiamo l’aria, la brezza che in questo momento ci accarezza la pelle, e il fuoco, così tipico di questo paesaggio eppure, per noi, così pericoloso; invochiamo l’acqua, il vasto oceano che vediamo velato da una coltre di nebbia, le sorgenti d’acqua dolce che nutrono la terra e la terra stessa, con il suo viluppo di alture e foreste.