Il respiro dell’altro

A poco più di due settimane dall’inizio della clausura civile e laica entrata nelle nostre vite, ascoltiamo il metronomo accompagnare un altro spartito del tempo, sempre troppo breve e adesso così lungo.

Un turbine di vento scuro ha sconvolto le pagine, perduto il segno, strappato le vecchie note sul rigo nero.

Ora tutto è sospeso, le orecchie si chiudono al suono nuovo, irriconoscibile. Quello del silenzio.

Torniamo a valutare perimetri dimenticati, a considerare geometrie nuove, angoli nascosti alla vista, ed anche quei soffitti, dove una volta ci perdevamo assorti, ora ci restituiscono crepe aperte mai percepite.

O forse lo abbiamo sognato?

Chiudiamo il mondo di fuori, ma ci siamo dimenticati di averne avuto sempre un altro. Dentro. Che ora ci sembra di ritrovare a malapena dopo un folle abbandono.

Abbiamo dimenticato la sua soglia dolce, la sua voce profonda e veggente.

Abbiamo rotto la tela, abbiamo perso il ragno, e non sappiamo più nulla delle sue trame.

Di fronte alla paura cantiamo come bimbi alle prese col buio, anche quando il cielo è azzurro sopra le nostre teste.

Le nostre città vuote sono ancora più grandi, il cemento più grigio, il verde più struggente.

Ci sentiamo desolati come quelle strade, di colpo così larghe e lunghe e come senza meta.

Dove volevamo andare?

Qual era stata l’ultima illusione, l’ultima promessa, prima che l’altro in noi ci rendesse pietrificati.

Un’enorme molla karmica ci riporta indietro, nel punto esatto in cui abbiamo smesso di capire, alzato le braccia, aggiustato compromessi, accettato nella nostra vita variabili capestro, penose e micidiali.

Pensavamo di avere il controllo, e nulla avrebbe sconvolto i nostri piani.

Contaminati dentro e fuori.

Ce n’eravamo accorti?

Adesso se n’è accorto il nostro corpo, e finalmente anche noi con lui.

Diamo il benvenuto a questa resurrezione della coscienza nel nostro corpo.

Adesso che sono coinvolti e sconvolti i nostri sensi.

Adesso che ci spaventa il respiro dell’altro, il tatto fugace e distratto o quello attento e vigile che misurava la nostra percezione, la nostra conoscenza del mondo, fin da bambini. O quello dell’abbandono vulnerabile, di un corpo che ne abbraccia un altro, delle mani che si stringono, degli occhi che comunicano vicini, a disegnare il mondo.

Adesso che ci ritroviamo sconvolta la prossemica delle nostre relazioni, adesso che i cerchi attorno a noi si dilatano, allontanandosi sempre più, e i Big Data, di contro, ci svelano nonostante tutto, e ci consegnano alla scienza e alle sue condizioni e disposizioni.

Adesso che assistiamo muti a questa lunga domenica delle salme, mentre le guardiamo sfilare innumerevoli e anonime all’interno dei camion militari.

Adesso saremo costretti ad una rivoluzione superiore e profonda, perché dalla sommità siamo in grado di vedere molto, e da un sotterraneo siamo in grado di agire molto…

Saremo costretti ad invertire il senso e la direzione.

A curvare la linea retta che pensavamo fosse la nostra vita, il nostro spazio e tempo.

Todo cambia. Da dentro.

Forse adesso scopriremo che il respiro dell’altro è il nostro respiro.

Che la Cura dell’altro è la nostra Cura.

Che la Vita dell’altro è la nostra Vita.

Alla fine dovremmo riuscire a confrontare il cielo sopra di noi con quello dentro di noi, ed accettarne lo scarto, le stelle ignorate a fronte delle tante che ci hanno incantato fino a farci perdere.

Alla fine avremo anche noi la nostra collina da visitare, il nostro Spoon River della memoria di questi giorni.

Ci parleranno a lungo dalla collina e ci sembrerà di nuovo impossibile dimenticare.

Brunella Campea