
Le espressioni “la fecondità della Chiesa dipende dalla Croce“, e “la maternità di Maria nasce sotto la Croce“, pronunciate dal Papa durante l’omelia, davanti a cinquemila persone, riportate poi dal Vatican News e ampiamente diffuse sui social, ci hanno fatto rabbrividire. L’abbiamo lette per caso quelle parole che nella loro apparente “solennità cristiana” contengono la simbologia inquietante che da secoli ci vorrebbe schiacciate ad un angolo e a cui, nonostante i millenni, non ci adattiamo. Anche se a pronunciarle è il capo di una chiesa, dal quale non ci aspettiamo nulla perché è emblema di quello stesso potere che ha spazzato via con violenze inaudite intere culture ben più attrezzate spiritualmente.
Agostino, il teologo fatto santo e diventato capostipite dell’ordine a cui appartiene questo papa, ne Le Confessioni e La Città di Dio, manifesta un totale disprezzo verso il corpo e la sessualità, in particolare quella femminile, ritenuta spesso occasione di peccato e disordine. La donna viene considerata subordinata all’uomo, sia sul piano dell’ordine naturale sia su quello spirituale. La sua funzione simbolica è ammessa solo nella misura in cui è assorbita in un ordine superiore, uno a caso: quello maschile.
L’uso del corpo femminile, e in particolare della sua capacità generativa, diventa, nella frase pronunciata dal papa, metafora per rappresentare la Chiesa, senza riconoscimento alcuno della soggettività e del significato autonomo del femminile, rivelando la solita appropriazione indebita che si ripete nella storia delle religioni e delle culture patriarcali.
Mary Daly, scriveva che gran parte del linguaggio teologico tradizionale si costruisce su una struttura gerarchica in cui il femminile viene evocato solo in funzione di un ordine maschile dominante, fungendo da recipiente passivo per narrazioni che escludono la donna reale. Allo stesso modo, la metafora della Chiesa come “sposa” o “madre” – centrale nella simbologia cristiana – attinge al potere simbolico del corpo femminile, senza però metterlo in relazione con l’esperienza concreta delle donne né riconoscerne la portata spirituale originaria.
Questa operazione richiama anche ciò che Marija Gimbutas ha definito il “rovesciamento patriarcale” delle culture neolitiche e preindoeuropee, in cui le divinità femminili, custodi dei cicli vitali e cosmici, sono state progressivamente svuotate del loro significato sacro e sostituite da pantheon maschili legati alla guerra, al dominio e alla morte. La Dea non scompare: viene assorbita, frammentata, esautorata del suo potere.
Come nella mitologia greca, dove la sovranità delle grandi Madri arcaiche viene trasferita a divinità maschili che ne utilizzano i simboli (lo scudo, il serpente, il grembo) per affermare la propria egemonia, anche nella narrazione cristiana il femminile viene evocato solo come riflesso, mai come origine pienamente riconosciuta.
In questa prospettiva, la “fecondità” della Chiesa, che si dice dipendere dalla Croce, è un’espressione della stessa dinamica di appropriazione: si utilizza un’immagine di potenza profondamente femminile per parlare del mistero cristiano, ma lo si fa senza interrogarsi sul femminile stesso, riducendolo a pura funzione simbolica a servizio di una narrazione ancora una volta centrata sull’elemento maschile – il sacrificio, la morte, la redenzione operata da un Dio-uomo. Si mantiene la forma del sacro femminile, ma si cancella la sua sostanza.
Insomma nulla cambia sotto la Cupola. Anzi, Omnia manent ut erant.
Alessandra de Nardis